https://www.sentireascoltare.com/artisti/led-zeppelin/...
Led Zeppelin
In cerca dell’angelo con l’ala spezzata
Page incomincia a battere il piede a ritmo. Il pezzo parte ed un tripudio di elettricità viva invade la stanza: perché c’erano amplificatori dappertutto lì dentro, da muro a muro, terribili, tutti vecchi e male in arnese, ma quando il sangue elettrico ne percorse i circuiti… magia: nacquero i Led Zeppelin!
Londra, inizio 1966. La birra costa tre scellini alla pinta, le strade sono piene di Mini Morris e le ragazze vanno in giro con la minigonna. In poche parole: la città è in fermento, e la febbre che la brucia si trasmette alla velocità della luce. Fra i tanti che ne subiscono il contagio, c’è anche lui: Michelangelo Antonioni, geniale cineasta italiano, autore di classici quali L’avventura, L’eclisse e Deserto rosso (vincitore, appena due anni prima, del Leone d’oro al miglior film al festival di Venezia).
Nel bel mezzo della lavorazione al suo nuovo progetto, il nostro uomo rilascerà una dichiarazione un po’ enigmatica ma anche un sacco emblematica: “Voglio quel gruppo nella mia pellicola, perché penso che faccia qualcosa di molto speciale”. Domanda a bruciapelo: cosa ha quel gruppo di tanto speciale che lo distingue da tutti gli altri in circolazione? Ma sopratutto: chi è quel gruppo? Allo scopo di dare una risposta a questi interrogativi, sarà d’obbligo gettare l’occhio fra le pagine ingiallite di alcuni rotocalchi d’epoca: infatti, un mese prima che il Time, in data 20 marzo ’66, pubblichi il suo famoso articolo sulla chiacchierata ma ancora misteriosa Swinging London, un altro magazine anglosassone, per la precisione un suo supplemento, impagina una foto che è anche un indizio.
Autore dello scatto: tale Colin Jones, che più tardi racconterà la difficoltà della session, per i tipi dell’Observer, con quella band: “Prima di allora non avevo mai incontrato un gruppo animato da un tale antagonismo interno”. Facciamo un gioco: riposizioniamo le coordinate spazio-temporali e mettiamoci al fianco di Colin-the-photographer mentre fa i suoi scatti. Bene, che cosa vediamo?
Innanzitutto notiamo una cosa: la tensione nell’aria è palpabile, le facce sono tirate, gli sguardi cupi, l’aggressività a stento trattenuta. Poi, c’è dell’altro? Sì, c’è: l’obiettivo di Colin-the-photographer ruota a 360° attorno ai quattro tipi intenti a maneggiare ciascuno il proprio strumento, e scopre che incarnano la perfetta sintesi della rivoluzione fatta di pop+moda+musica che ha da poco invaso la City. Già, ancora lei: la Swinging London, una vera calamita per gli artisti cosmopoliti e al passo coi tempi che vogliono capire da che parte soffia il vento nei mitici Sixties; gente cool, tipo il Michelangelo nazionale, o magari tipo lui: “Quaggiù gli agenti provocatori del cambiamento”, affermerà a metà 1965, in un’intervista ai Cahiers du Cinéma, il cineasta nonché sceneggiatore Joseph Losey, che si autoesiliò in Gran Bretagna dopo gli attacchi della macchina del fango anti-comunista messa in moto dal senatore Joseph R. McCarthy, “sono i giovani artisti, i pubblicitari, coloro che fanno tendenza, gli stilisti, i designer e i musicisti, tutti influenzati dal movimento pop”.
E fra quei tutti ci sono anche loro, i tizi di quella band: gli Who, per servirvi; alfieri dichiarati del movimento mod, sanno come cantare le sfighe dei giovani proletari e le ammantano di elettricità tagliente. Risultato: una bomba rock senza eguali! Eppure, nonostante Antonioni guardi a loro per Blow-Up, il suo nuovo film, destinato ad immortalare con epica ieraticità la nascitura Swinging London, loro… non colgono l’attimo fuggente: “Eravamo troppo anarchici per comportarci in modo ragionevole sul set”.
Tutto okay, Peter Dennis Blandford Townshend, per gli amici più semplicemente Pete: la tua band spacca di brutto, le canzoni pure, per non parlare poi della tua chitarra, che alla fine degli infuocati show degli Who tu sfracassi immancabilmente contro un ampli marca Marshall, suscitando l’eccitazione di torme isteriche di teenager ma anche di blasonati registi. Sì, perché ormai è chiara una cosa: Antonioni vuole assolutamente immortalare quel gesto iconoclasta nel suo film, costi quel che costi; un gesto che si è ormai trasformato da rito in mito, finendo per far parlare di sé aldilà della stretta cerchia degli adepti al culto, e aldilà dell’effettiva portata della sua valenza estetica (ribellismo? noia esistenzialista? menefreghismo? moda e basta? Una cosa è certa: quel gesto li riassume tutti!).
Piccola precisazione: a questo stadio delle riprese, il film prevede ancora la sequenza iniziale in cui appare un gruppo rock che prova in una stanza la sua performance. Antonioni è perplesso: oramai le ha tentate tutte e non sa più che pesci prendere. Gli Who sono roba forte, suonano la musica del futuro, ma creano anche un sacco di grane sul set. Ergo: non sono più della partita. I Velvet Underground saltano invece per un altro motivo: i permessi di lavoro non ottenuti. Antonioni è disperato. I suoi piani vacillano. Lui, però, non vuole rinunciare alle scene col gruppo. Poi, quando la faccenda sta per concludersi nel peggiore dei modi, ecco che… spunta un nome: gli Yardbirds. Un gruppo solido, non c’è che dire. Un gruppo che ha all’attivo un singolo di grandissimo successo: For Your Love, che suppergiù un anno prima ha sbancato le classifiche di mezzo mondo, e ha venduto più di un milione di copie.
For Your Love è un pezzo pop che più pop non si può: melodico, ritmato, fresco, ballabile. In una sola parola: è “perfetto” (per un gruppo che vuole giocarsi il tutto per tutto nella Swinging City di Beatles e Rolling Stones). C’è un unico neo in questa storia: forse quel pezzo pop è… come dire?… un tantinello troppo pop. Troppo almeno per un gruppo come i Gallinacci: loro suonavano il blues quando il blues (revival) esplose in quel di Londra, e lo suonavano in compagnia di uno dei più grandi harmonica players del Regno, Mr. Cyril Davies, bianco di pelle ma scuro nell’anima, volato fra gli angeli nel gennaio del 1964, allorquando collassò sul palco di un club a Twickenham, West London.
Peccato, peccato davvero: un talento scomparso troppo presto. Ma anche i Gallinacci hanno il loro talento: si chiama Eric Patrick Clapton, suona la chitarra elettrica da dio ed è un purista del blues. Nota bene: del blues non del pop! Ragion per cui, quando l’accattivante For Your Love sbaraglierà le classifiche di vendita, lui… storcerà il naso. Perché lui, quella roba lì, alla moda, non la suona e non la suonerà mai (beh, almeno per il momento…). Niente compromessi, per lui. Infatti sai cosa fa: lascia la band, ovviamente dopo la pubblicazione della “pietra dello scandalo”. Gli Yardbirds però non si scoraggiano, e lo sostituiscono: così entra nel gruppo un nuovo astro della chitarra elettrica, Jeff Beck, e assieme a lui c’è anche un nuovo manager. Nome all’anagrafe: Simon Napier-Bell. Segni particolari: ambizioso, anzi ambiziosissimo, e soprattutto poco disposto a lasciarsi sfuggire via l’occasione offertagli da Antonioni.
“Per poter filmare il gruppo nell’ambiente giusto durante l’esecuzione del loro pezzo Stroll On”, scriverà a proposito della scena più mitica di quel miticissimo lungometraggio la giornalista Valentina Agostinis, “Antonioni si affidò al valido team dell’art director Gorton, che ricostruì quanto più fedelmente possibile il Ricky-Tick Club negli studi della MGM, a Borehamwood, North London”.
Dunque, una messa in scena: il club à la page perfettamente riprodotto, le crepe sui muri identiche al millimetro, i poster originali con i nomi delle band in calendario, e infine il pubblico che balla e si diverte durante il concerto (no, il pubblico no: quello è vero, zero figuranti); e ancora: Jeff Beck che sfascia la chitarra contro l’ampli, mentre l’altro chitarrista gli sorride sornione e sembra godersela un mondo. Dopotutto, è l’unica chitarra rimasta in azione. Dunque: zero verità, tutta finzione (o quasi…).
Risultato: una sequenza memorabile, che farà la storia, tanto del cinema quanto della musica. Alla faccia del cinema verità, e di tutte quelle storie lì. Buon per loro, verrebbe da dire! Ma prima che nostra storia metta il turbo e (ri)parta in quarta, sarà bene ripercorrere il modo in cui l’astro dei nostri Gallinacci iniziò a brillare, si affievolì e poi si spense… dando vita ad una nuova fulgidissima stella.
Confuso e felice
“Ho un ottimo ricordo del periodo con gli Yardbirds. A parte un tour in particolare che ci ha quasi ucciso, è stato molto intenso. Musicalmente era un grande gruppo […], ogni musicista sarebbe andato di corsa a suonare con una band del genere. Era particolarmente buona quando ci eravamo io e Jeff Beck come chitarre soliste. Poteva diventare davvero qualcosa di eccezionale, ma sfortunatamente… non andò così” [Jimmy Page]
Autunno 1963, Crawdaddy Club, Richmond: i fu Metropolis Blues Quartet hanno cambiato il nome in Yardbirds dopo aver ascoltato i Rolling Stones, e ormai giunti al marzo successivo, si accingono a registrare il loro lavoro d’esordio a base di pezzacci blues e rhythm and blues dal tiro micidiale. Titolo dell’lp: Five Live Yardbirds! Formazione in campo: Eric “Slowhand” Clapton alla sei corde, Chris Dreja alla chitarra ritmica, Jim McCarthy alla batteria, Keith Relf alla voce e all’armonica a bocca, Paul “Sam” Samwell-Smith al basso. Luogo dell’esibizione: il Marquee, prima che si trasformi definitivamente da tempio della musica nera a cattedrale del nuovo rock made in England. Passano due anni. La band ha più successo in USA che in UK. Chiamatelo, se vi va, l'”effetto british invasion”. Certo è che non mancano i casini interni. C’est la vie.
Beatles, Kinks e Stones occupano le prime pagine dei newspaper, e il loro stile conquista il mondo, USA in primis. Dopotutto, sono o non sono gli alfieri della cosiddetta British Invasion? Gli Yardbirds, dal canto loro, si trovano spaesati: l’epoca del blues revival fedele-alla-linea ha lasciato il posto alle sonorità lineari ma inventive della nuova generazione di gruppi rock. Dunque, che fare?
Possibilità n°1: si potrebbe ripiegare testardamente sul proprio sound, e conservare lo zoccolo duro di fan che da sempre ti segue. Oppure…
Possibilità n°2: tanto vale adeguarsi allo spirito dei tempi e tentare di combattere ad armi pari i propri “rivali”.
Per la serie: se non riesci a sconfiggerli, unisciti a loro.
Gli Yardbirds optano per la seconda possibilità. Viva il pragmatismo! Quindi abbandonano il blues nella sua forma più pura, e con le blue notes fugge via anche Eric-il-manolesta. Niente paura, però. A sostituirlo ci penserà un tizio giovanissimo cresciuto a pane e blues e che sa decisamente il fatto suo. Il suo nome è Jeff Beck, e per quanto ci provi non riesce, né mai ci riuscirà, a fare l’ago della bilancia nei disastrati equilibri della band. Sia come sia, il gruppo ora naviga a vista; non tanto dal punto di vista puramente creativo, quanto piuttosto… Ma lasciamo la parola a uno che visse in prima persona i deragliamenti e i tentennamenti dell’ultima fase dei Gallinacci:
“Quando il gruppo registrò l’album conosciuto anche come Roger The Engineer”, ricorderà anni dopo il manager della band Napier-Bell, “era chiaro a tutti che si trattava di un capolavoro fatto di parti uguali di blues, pop e psichedelia; quel che invece non fu del tutto chiaro al momento, era che il bassista e co-producer del disco stava per abbandonare la nave”. Così fu. Samwell-Smith svanì nel nulla. Puff. Ora sì che il gruppo era nei guai.
Urgeva trovare un rimpiazzo: e lo trovarono, nella fitta schiera dei session men superprofessionali e superpagati di cui all’epoca faceva parte anche un chitarrista, tanto giovane quanto sgamato, destinato ad assurgere a protagonista assoluto di questa nostra storia. Ecco come lo ricorda il solito manager degli Yardbirds: “A quei tempi”, puntualizzerà anni dopo Napier-Bell, “Jimmy Page era considerato un ragazzo prodigio alla chitarra elettrica; aveva suonato nelle session nientepopodimeno che dei vari Stones, Kinks e Nico, solo per citare alcuni dei nomi con i quali “collaborò”.
Insomma: era un astro in ascesa a tutti gli effetti. Aggiungiamo un altro nome all’illustre lista di autori con cui suonò Jimmy: gli Who! Eggià, persino il gruppo di Pete Townshend e Roger Daltrey si avvalse dei servigi di Jimmy-capelli-da-paggetto-Page (o almeno così doveva andare, senonché Pete dimostrò di sapere il fatto suo alla sei corde, e Jimmy fu utilizzato “solo” come chitarra ritmica nel pezzo spartiacque I Can’t Explain). Ma Jimmy è stufo di essere un’ombra che si aggira fra gli studi di registrazione e nient’altro. Vuole di più. E dannazione farà di tutto per averlo:
“Detesto l’ambiente degli studi”, confesserà nel febbraio del 1966 ai tipi del Sunday Times Magazine l’uomo che da un annetto si è unito ai Gallinacci pop-blues, “a nessuno lì pare importare molto della musica. Comunque ho dei progetti al momento: imparerò a suonare il sitar che mi sono fatto arrivare dall’India, e passerò sei mesi assieme al maestro Ravi Shankar”. Ovviamente le cose non andranno così: infatti Jimmy – che già anni prima aveva visto balenare la possibilità di entrare a far parte degli Yardbirds, ed aveva rifiutato per timore di “stuzzicare” il “manolesta” Clapton – inizia a suonare il basso con la band.
Dura poco: Jimmy è un chitarrista blues coi controcazzi, e declassarlo al rango di bassista sarebbe un po’ come tenere in panchina Edson Arantes do Nascimento detto Pelé. Una cosa inconcepibile. Non si fa. Sicché, assieme a quell’altro prodigio di Beck, il nostro uomo diventa tipo… la seconda chitarra degli Yardbirds: ed ecco spiegato il sorriso sornione che solca il suo volto alla fine della scena spaccachitarra in Blow-Up. Dunque, una storia a lieto fine questa. Non proprio; perché non tutti nell’entourage della band saranno contenti della duplice leadership chitarristica in stile odd couple:
“Un giorno presi da parte Jeff e gli dissi”, confesserà poi quell’azzeccagarbugli di Simon Napier-Bell, ormai sempre più convinto che “dei gruppi rock non si vende tanto la musica quanto l’immagine”, “gli dissi: tu sei il fottuto genio del gruppo, e ingaggiare qualcuno che sia altrettanto bravo è pura follia”. Pian piano, come un fuoco che si consuma senza che un alito di vento lo estingua, l’élan vital degli Yardbirds svanisce.
Ora in Inghilterra spadroneggia il blues-rock duro e volitivo dei Cream di Clapton, e soprattutto fa bella mostra di sé l’hard-rock versione panzer di Jimi Hendrix, chitarrista di colore nativo di Seattle dalla capigliatura afro-rampicante. In entrambi i casi trattasi di power-trio: ossia di formazioni a tre, chitarra-basso-batteria, che sfruttano al massimo le dinamiche chiaro/scuro, veloce/lento già insite nel blues. Page prende nota: la lezione estetica è appresa, e non rimane che trovare il modo giusto per farla fruttare al meglio. In attesa che ciò avvenga, Jimmy prende confidenza col nuovo clima culturale giovanile, che pare cucirglisi addosso a pennello:
“A dire il vero”, confesserà in una delle sue numerose interviste in quello scorcio di Sixties, “mi piace vedere gente vestita in modo oltraggioso. In fondo stanno solo gettando via le catene della vecchia società. L’Inghilterra di oggi è completamente decadente, ma alla fine… chi se ne frega”.
Torniamo agli Yardbirds: il gruppo regala sempre meno gioie e sempre più grattacapi ai musicisti che ci suonano, e le occasioni di fraternizzare e stare assieme, da buoni amiconi, proprio come accadeva al tempo dell’esordio, si fanno sempre più rare; purtuttavia qualche eccezione c’è:
“Durante una delle loro notti libere a New York”, scriverà il critico musicale Stephen Davis nel suo tomo dal titolo Il martello degli dei, “il gruppo andò al Café Au Go Go per ascoltare un concerto di Janis Ian. A stupirli, però, fu il cantante folk che aprì la serata: Jake Holmes”. Ora concentratevi, chiudete gli occhi e immaginate di ascoltare anche voi la musica di quel tale: a colpirvi sarà soprattutto un brano che ha una scala discendente di bassi e un testo paranoico e bizzarro che allude chiaramente ad un trip allucinogeno andato storto.
Titolo del brano: Dazed And Confused. Non arrossite: non siete gli unici su cui quel pezzo ha fatto colpo, perché se solo ci foste stati anche voi quella notte in quello striminzito club newyorchese, avreste notato un drappello di strani tipi, vestiti con strani abiti, e con gli occhi piuttosto annebbiati, alcol o droghe, chissà. Solamente uno di loro ha un guizzo che gli brilla negli occhi. Quel tizio è Jimmy Page. Perché ci sono invenzioni che sono destinate ad essere inventate non una bensì due volte. Ed è proprio quel che sta per accadere ora: “Nell’aprile del 1968”, si può leggere sempre nelle pagine del tomo del summenzionato critico, “gli Yardbirds tornarono negli Stati Uniti, per un tour delle università e dei locali psichedelici che rappresentavano la principale fonte di pubblico per il nuovo progressive rock”.
Tenuti in piedi da pillole, iniezioni e droghe, i Gallinacci si preparano a suonare all’Anderson Theatre, un localaccio newyorchese male in arnese, a pochi isolati dal Fillmore East dell’impresario rock Bill Graham. All’apparenza, il concerto non ha niente di speciale: una location di routine, una come tante, nella carriera degli anglosassoni. Invece…
“Gli Yardbirds si sono presentati sul palco”, riporterà all’indomani un quotidiano locale, “ed hanno aperto col loro cavallo di battaglia, Train Kept A-Rollin”. Fin qui, tutto regolare: una scaletta nella norma. Ma alla fine dello storico pezzo ecco che ne inizia un altro: è un pezzo monstre, che pare la colonna sonora di un film dell’orrore, perché è zeppo di pause studiate ad arte e colpi ad effetto. Ma c’è dell’altro: qui Page suona la sua chitarra con l’archetto da violino, e la mente va subito a quei bluesmen della tradizione, Robert Johnson in primis, che si dice abbiano venduto l’anima al diavolo e ne abbiano ricevuto in cambio la grande arte.
“Sto solo cercando un angelo con un’ala spezzata”
Page ora è uno di loro. Benvenuto nel club. Ed ecco che Dazed And Confused – proprio quella Dazed And Confused che fece luccicare gli occhi al nostro uomo quando l’ascoltò per la prima volta dal vivo – si è trasformata in qualcosa di cui i vecchi Yardbirds non sarebbero stati capaci senza di lui. È diventata tipo… una interminabile cavalcata epico-infernale, colma di dolore, o forse è piacere? Tipo certi poemi che lacerano la carne viva e toccano in sorte solo ad un numero ristretto di vati illuminati (William Blake, se ci sei, batti pure un colpo…). Fantastico. Ormai gli Yardbirds sono kaputt, finiti, andati. Jimmy Page suona ancora con loro, eppure la sua mente vola lontano, verso lidi ancora inesplorati. Le parole del buon Chris Dreja ci spiegano perché:
“Jimmy ce la mise tutta per inserirsi nella formazione e per dare il suo contributo alla musica. Aveva un atteggiamento estremamente professionale, era molto rapido, mentre noi all’epoca in cui si unì nel gruppo, sembravamo una plebaglia degenerata”.
In fondo la verità è sotto gli occhi di tutti: il resto della band viaggia con le batterie scariche, a velocità ridotta, mentre Jimmy è fresco come una rosa ed entusiasta come un pivellino. Robe da matti. Certi tizi sono come le acque chete, che quatte quatte rompono i ponti. Ecco, Jimmy è così. O almeno questa è l’opinione del resto della sua quasi-ex-band: “Ci usò come piattaforma di lancio per se stesso”, piagnucolerà a metà anni Settanta il solito Dreja, “mettendosi a suonare la chitarra con l’archetto e menate del genere”.
A questa insinuazione non priva di fondamento, ma nel complesso piuttosto ingenerosa, il nostro uomo risponderà in due modi: 1) Attraverso i fatti (lo vedremo fra poco…); 2) Attraverso una delle sue frasi meno note ma forse più incisive; perché cattura l’essenza della sua estetica in fieri, fatta di opposti che si cercano e combattono, e alla fine raggiungono una sintesi incomparabilmente poetica: “Sto solo cercando un angelo con un’ala spezzata”. Ecco, la frase è questa. Le frasi celebri sono come i divi del cinema: ognuno ha il suo preferito.
Alcuni prediligono l’invito al coraggio visionario di uno Steve Jobs (“Siate affamati! Siate folli!”), altri preferiscono invece i detti della sapienza orientale e la calma che ne deriva (“Il fiume vince sempre non grazie alla sua forza ma alla sua perseveranza”), e poi ci sono le massime che parlano del superare se stessi, del diventare ciò che si è, saltando a pie’ pari i propri limiti (tipo questa del pittore Van Gogh: “Se una voce dentro di te continua a ripeterti “non sarai mai in grado di dipingere”, allora dedicati alla pittura con tutto te stesso, e vedrai che quella voce sarà messa a tacere”).
La massima di Page appartiene invece a una categoria a parte: infatti dice non dicendo, e non dicendo dice. Qualcuno la definirebbe criptica, o magari sdolcinata e falsamente poetica, o addirittura inconsistente. Invece no. È una frase potente, che in poche parole racchiude lo slancio di chi vuole elevarsi da quaggiù a lassù, di chi sa che può volare alto ma non ha ancora le ali per farlo. E a proposito di parole, sarà il caso di seguire Richard Cole, il nuovo tour manager dei Gallinacci, sin dentro al Salvation, la discoteca del momento lì a New York. Perché una certa sera, affianco a lui ci sono il bassista John Entwistle e il batterista Keith Moon degli Who che sparlano del cantante e del chitarrista del loro gruppo, cioè di Daltrey e di Townshend, quand’ecco che uno dei due dice all’altro:
“Amico, lasciamo la band e formiamone una tutta nostra. La chiameremo Lead Zeppelin, lo Zeppelin di piombo, perché non avrà un cazzo di successo”
Queste parole nascondono un gioco di parole: infatti in inglese l’espressione idiomatica go over like a lead balloon significa per l’appunto qualcosa tipo… fare fiasco. Così Richard Cole ritorna in albergo, mezzo ubriaco, e racconta la storiella di Keith, John e dello Zeppelin di piombo. La racconta un po’ a tutti, proprio come fanno gli avvinazzati, che ti prendono per un braccio anche quando non li conosci e ti raccontano i fatti loro. Soprattutto la racconta a lui: Jimmy-il-fenomeno, che all’apparenza sembra prenderla per quel che è, ossia una tipica storiella su due rockstar deluse che cazzeggiano al bar. Invece poi…
segue sul sito
https://www.sentireascoltare.com/artisti/led-zeppelin/?fbclid=IwAR2YFgBWyCtNjztlOA9GHkbmhYbbyUcLlNZVuRvkZNB8muttS0-vbV_VbhE
Led Zeppelin – “Stairway to heaven”
Metti su questo disco, che è Led Zeppelin IV, e – messo già al tappeto da pezzi pazzeschi – arrivi alla quarta traccia, ultima del lato A del vinile, ed è “Stairway to heaven”. La ascolti e ascoltarla la prima volta è come vedere per la prima volta il Colosseo, il Partenone, Notre Dame, la Cappella Sistina, il Cristo Velato… e se poi quando tutto questo accade hai la fame pura e incendiaria dei quindici anni, tutto è ancora più forte, più vivido.
Hai solo paura, nel tuo batticuore di quindicenne, che quell’emozione non tornerà più, che ascoltandola e riascoltandola non sarà mai più così bella. E invece passeranno gli anni, tu continuerai a metter su questo disco e ogni volta, arrivati alla traccia quattro, sentirai lo stesso identico brivido sottopelle.
E capirai il significato della parola “capolavoro”.
Altro, benché vorrei parlare di questo pezzo, di quell’album, di quella voce, quella chitarra per ore e ore, non so dire, non riesco. Ma meglio così, meglio tacere davanti a simili immensità (mica pretenderai di spiegarci la bellezza delle Piramidi?), meglio rimanere così, stupefatti, soverchiati e schiacciati da tutta questa bellezza.
Solo una cosa, e molto personale.
Questa canzone non mi ricorda il Natale, ma UN Natale.
Per l’esattezza, quello dei miei diciotto anni, quando la notte del 24, intorno alla mezzanotte, controvoglia e spallatissimo finii dentro una chiesa, alla Messa, assieme ad altri amici. Il fatto che fossimo lì dentro, e che dovessimo restarci, era una questione di ragazze che ci avevano chiesto di accompagnarle e con cui speravamo di combinare qualcosa a fine funzione.
Io, appoggiato al muro, spensi il cervello alla ricerca di qualcosa di interessante cui pensare in quell’ora di noia. Ma poi, improvvisamente, come quando un raggio di sole squarcia di colpo il cielo grigio, il coro della chiesa, accompagnato solo da un flauto e da una chitarra, attaccò questa canzone.
Attaccò “Stairway to Heaven”.
E tutto, quella notte, quella chiesa, i miei diciott’anni e il mio spallamento, trovò un senso.
Strano e indicibile.
E tornato a casa scrissi di getto tre pagine.
Le prime tre pagine della mia vita che ancora oggi rileggo volentieri e senza alcun imbarazzo.
Alle canzoni che lasciano il segno.
Alle notti importanti.
Alla vita.
Riccardo Lestini
che ringrazio e abbraccio
Led Zeppelin Stairway to Heaven Earls Court May 24, 1975 rare
ecco un estratto da When Giants Walked the Earth di Mick Wall che è esilarante, ma parla anche del suo talento innaturale e della sua testarda personalità volitiva:
"In seguito, Bonzo gli ha mostrato diverse paia di bacchette extra spesse che la compagnia di tamburi Ludwig aveva realizzato appositamente per lui dopo che si era saputo quanto spesso si rompeva le bacchette - a volte due o tre volte a notte. Il batterista dei Vanilla Fudge Carmine Appice, che Bonham si era avvicinato durante il periodo in cui gli Zeppelin erano stati con loro, aveva chiamato personalmente Bill Ludwig e suggerito alla compagnia di offrire al giovane batterista degli Zep un'approvazione simile a quella di cui Appice aveva già goduto i benefici, incluso un grande kit su misura. è d'accordo. Il kit includeva due grancasse da 26 pollici - simili a quelle suonate da Appice - di cui Bonham era particolarmente entusiasta, ma che Page e Jones detestavano. A differenza di Appice, Bonzo aveva una "tecnica del piede destro diversa da qualsiasi altro batterista che abbia mai visto". mai sentito", dice lo scrittore Chris Welch, lui stesso un batterista ed esperto dello strumento. "Poteva già fare con una grancassa quello che alcuni come Carmine - un eccellente musicista a pieno titolo, ma niente su Bonham - farebbe usando due tamburi.' L'ex roadie degli Zeppelin Glen Colson ha ricordato di aver installato il kit per la prima volta e di come Bonham "ci ha fatto il suo dado su [esso]". Di conseguenza, ha detto: "Jimmy Page non riusciva a capire cosa stesse facendo Bonzo. C'erano così tante percussioni in corso che non riusciva a concentrarsi, non riusciva a tenere il tempo. Quindi Jimmy mi ha ordinato di non impostare mai il di nuovo la doppia cassa. Hanno spaventato tutti.'
In effetti, Bonham avrebbe usato la configurazione del contrabbasso-batteria in diverse date del secondo tour americano della band prima che un Page esasperato mettesse finalmente fine a tutto, anche se riapparivano sporadicamente. Appice insiste che Bonham in seguito gli abbia detto che li avrebbe usati nella registrazione di "Whole Lotta Love", mentre Jones ricorda che Bonham li ha introdotti di nascosto per le sessioni dell'album Physical Graffiti fino a quando Page ha finalmente perso il suo straccio e ha ordinato ai roadie di nascondere il seconda grancassa via - per sempre."
--------------------------------
--------------------------
2CELLOS - Whole Lotta Love vs. Beethoven 5th Symphony
led zeppelin e Beethoven..
il rock incontra il rock
due pietre miliari della creazione e innovazione rivoluzionaria musicale..
Led Zeppelin – 1972.12.08 – Hard Rock, Manchester, U.K.
Disc 1
01 Rock and Roll
02 Over the Hills and Far Away
03 Out on the Tiles / Black Dog
04 Misty Mountain Hop
05 Since I’ve Been Loving You
06 Dancing Days
07 Bron-Yr-Aur Stomp
Disc 2
01 The Song Remains the Same
02 The Rain Song
03 Dazed and Confused
Disc 3
01 Stairway to Heaven
02 Whole Lotta Love
03 Heartbreaker
04 Immigrant Song
05 Communication Breakdown
Lineage: CDRs > EAC (secure mode, offset corrected, test & copy) > WAV > FLACFrontend (tested & verified) > FLAC level 6
Mastered from 1st Gen + other sources, most complete version © Eddie Edwards
“bootleg” audience attinente al concerto che tennero i LZ a Manchester l’8/12/1972. Il tour del Regno Unito dell’inverno 1972-1973 arrivò dopo le date di ottobre spese tra Giappone e Svizzera (i due concerti di Montreux) e si protrasse dal 30 novembre 1972 al 30 gennaio 1973.
A Manchester fecero due concerti, il 7 e l’8 dicembre. Non si sa tanto dell’Hard Rock Concert Theatre, se non che fu aperto nel settembre del 1972 (serata d’apertura con David Bowie) e che restò in funzione tre anni durante i quali vide passare tra gli altri Free, Wings, Fleetwood Mac, Black Sabbath e Deep Purple. Delle due date dei LZ solo la testimonianza audio della seconda è arrivata sino a noi; la versione di cui parliamo è quella rimasterizzata a suo tempo da Eddie Edwards, noto fan inglese molto abile nel ripulire vecchie registrazioni live. Il titolo che diede Edwards al suo lavoro è One Step Up From Belle Vue riferendosi ad una plantation della serata, ma la stessa versione fu ristampata anche dalla etichetta specializzata in bootleg Sanctuary col titolo di Hard Rock!. Tale registrazione è facilmente reperibile tramite download gratuito nei soliti siti dove i fan si scambiano questo tipo di articoli.
Rock And Roll apre il concerto con la solita meravigliosa irruenza. Stiamo parlando degli anni migliori dei Led Zeppelin, dunque la performance di tutto il concerto è, come spesso accadde, superba. Durante il giro strumentale prima dell’assolo Jones tarda a passare dal LA al RE, ma si riprende subito. La chiusura di Bonham è rresistibile. Page parte quindi con l’introduzione di Over The Hills And Far Away (brano allora ancora inedito). Una volta entrata la band non si può non si notare l’attacco furibondo che Bonham mette in mostra nel suo drumming. Plant è un po’ misurato, tende a controllare la voce visto che nelle settimane e mesi precedenti ebbe le prime avvisaglie dei problemi di voce di cui soffrirà negli anni successivi. La sezione dedicata all’assolo è sublime: Bonham e Jones ben presenti con il loro magnifico groove hard rock funk e Page libero di esprimersi alla sua porca maniera.
RP: Thank you. Good evening. Uh, this is one that tells us, uh, this is one they call one step up from Belle Belle Vue. Which I think they might be right about. This is, uh, a song off the last album. That’s, uh, yeah, that’ll do.”
Ascoltare Black Dog in cuffia ti dà l’esatta (o quasi) percezione di cosa doveva essere vedere un concerto dei Led Zeppelin in quegli anni: potenza pura trattata con sopraffina eleganza e con una musicalità probabilmente senza pari in campo Rock. Il gruppo è sciolto, suona molto bene, è coeso, pieno di testosterone musicale e sospinto dalla energia cosmica, particolarità che mancarono – dal vivo – dal 1975 in poi. Sarà che le orecchie si abituano in fretta alla qualità non certo perfetta dei bootleg di questo tipo, ma l’audio sembra davvero migliorare con Black Dog. Bonham è ancora una furia. Nessuno in campo Rock suonava come lui e come questo gruppo in quegli anni. Una meraviglia.
Il pubblico risponde alla grandissima. Il calore e l’affetto per quei quattro musicisti era davvero grande.
RP: “Thank you. Now what was that called? Huh. Now then. So this is a song without, hang on. Every time we come to Manchester, there’s a lot of people shouting out. But it’s not wise. Here’s, uh, here’s one about what happens on a sunny afternoon when you go for a walk in the park and sit, sit with the wrong people. It’s called ‘Misty Mountain Hop.'”
Jones si siede al piano e alla pedaliera basso per Misty Mountain Hop. Non mi piace ripetermi ma non posso fare altrimenti e sottolineare una volta di più il lavoro di John Bonham. Incredibile. Senti un concerto come questo e tutti gli altri batteristi rock ti sembrano lontani anni luce da lui. Cosa cavolo abbiamo perso quel 25 settembre 1980!
Segue Since I’ve Been Loving You che arriva dalla precedente grazie alla leggendaria scarica elettrica di Page. Il pubblico applaude sulle prime misure di questo fantasmagorico blues in minore, non può fare altrimenti incantato come’è da quella meravigliosa musicalità. Il cantato di Robert è pieno di passione, i suoi I’ve been the b-b-b-b-b-b-b-b-best of fools sono da brividi. Per il ritornello Jones passa dal piano all’organo. Il suono della chitarra di Page non è troppo distorto così tutto il calore dell’accoppiata Gibson Les Paul/Marshall risalta ottimamente.
RP: “This is, uh, we’d better call in a … completely musical part …. You’ll notice that, uh, a few, uh, of the heirarchy of the musical press managed to get to Newcastle last week. It’s the first English gig they’ve been to for about thiry-five years. And you should see how they’ve changed, man. Anyway, they, uh, they won’t tell us how much they like this. And we don’t know what to do about it. We want to drop it from the program. … come out in the summer, as you probably read. It could have been just right. But, we still. ‘Dancing Days.'”
Page abbassa il MI cantino a RE e il gruppo si lancia in Dancing Days (brano allora ancora inedito). Brano obliquo ma sempre interessante da sentire in versione live. Impressionante cogliere per l’ennesima volte come la sezione ritmica riempia bene lo spazio mentre Page suona le tante variazioni sulla chitarra.
RP: ” Sorry, we … happens. …. How many are there? Well thank you very much. …. I’ve heard managers are so tough but, uh. … the lights on? I remember, …. Tell me, now. In the meantime I’ll tell you about. You’re takin’ it a lot more seriously and I’m too silly. Here’s, uh, there’s a sign standing outside. Alright, steady. Steady. Steady. I suppose I could hold it. Huh, I was gonna tell you that, uh, I wish I could, man, I wish I could but, but that one was, you know you’ve got two, well one of mine dropped. I didn’t lick it. It became impossible to do things right now. Right, we’ll have to do without it. ….This is a song about a dog.”
Page imbraccia la chitarra acustica, parte col fingerpicking, il pubblico si lancia in un deciso battimani, inizia così lo stomp di Bron-Yr-Aur Stomp.
RP: “It’s off, uh, the fourth album that’s coming out soon. And it’s called, uh. No, no, no, it wasn’t the fourth. And this is called ‘The Song Remains the Same.'”
Il concerto prosegue con The Song Remains The Same e The Rain Song (brani allora ancora inediti), dove la qualità audio della registrazione sembra sfumare un poco. Verso la fine di Rain Song, Page sembra “girarsi” e non essere in piena sintonia col groove del gruppo.
RP: “John Paul Jones, mellotron. Thank you very much for that … in the quiet bit … And it really doesn’t matter. We’re gonna carry on with Billy … numbers all night. That would happen to be good. Actually, he’s writing an album with Eric Clapton …. Billy …. Here’s one that reminds me of Billy … ‘cuz it features John Paul Jones. John Paul Jones!”
Dazed and Confused dura più di 28 minuti e contiene accenni a There Was A Time di James Brown, Cowgirl In The Sand di Neil Young e a Walter’s Walk e The Crunge (quest’ultime allora entrambe inedite naturalmente). Di nuovo una grande prova di John Bonham, ma non è che il resto del gruppo sia da meno. E’ stupefacente sentirli improvvisare stacchi e variazioni ritmiche (dal minuto 5:50 in poi). Nella sezione strumentale dopo l’intermezzo dedicato all’archetto di violino, Page è così veloce e fluido che spaventa (è qui che inserisce il riff di Walter’s Walk; poco dopo Bonham parte col tempo di The Crunge). Nel finale ancora un Page velocissimo. Mamma mia! Subito dopo la chiusura il pubblico esplode.
RP: “Alright, if we can, uh, just stop them people chattering in the quiet bit. You were chattering somewhere in towards the sign of …. We’d like to do something that we’re, uh, like we do every night. I mean it. …, this is called ‘Stairway to Heaven.'”
L’introduzione di Stairway To Heaven appare un pelo insicura, sia da parte di Page che di Jones. Robert la canta con passione e con voce proprio bella. Belli i giochi di grancassa di Bonham intono al minuto 5:20.
RP: “Thank you, …. Hail stones and fucking ….This is, uh, this is something that, uh, when we’re not on stage we like to, to … around and play guitar, go to clubs and get very silly and, uh, this is a song that really typifies everything that we do during that hobby time.”
Whole Lotta Love si spinge oltre i 26 minuti e contiene tante citazioni.
Momenti più o meno completi per Sing A Simple Song (Sly & The Family Stone), Everybody Needs Somebody To Love (Solomon Burke), It’s Your Thing (The Isley Brothers … di solito veniva inserita in Communication Breakdown) e Bottle It Up And Go (Tommy McClennan).
Solo oscuri accenni a Cumberland Gap (Lonnie Donegan), Ther’re Red Hot (Robert Johnson), Truckin’ Little Mama (Blind Boy Fuller).
Altri momenti più o meno completi per Boogie Chillum (John Lee Hooker), Boogie Mama, Say Mama (Gene Vincent), Let’s Have a Party (Elvis Presley), I Can’t Quit You Baby (Otish Rush), The Shape I’m In.
In Bottle It Up And Go (minuto 8:00) Page è ancora super veloce. Che meraviglia sentirlo suonare così. Questo è il Page dell’immaginario collettivo. Jimmy è scatenato anche in Boogie Mama. La qualità audio decade ulteriormente in I Can’t Quit You Baby, ma torna di buon livello per The Shape I’m In.
RP: “Thank you very much. We’ve had a very silly time. Goodnight”
Heartbreaker avanza con la consueta decisione. Nell’assolo Page ripete una frase che diventa un riff fino a che Bonham e Jones non saltano su per un breve impetuoso intermezzo strumentale suonato insieme.
RP: “Thank you very much, Manchester! And farewell. A goodnight”
RP: “Good evening! It’s pretty cold up here. Here’s a song that’s, uh, played with all over the world, even to Bangkok. That’s it.”
Immigrant Song e Communication Breakdown chiudono la scaletta con lo smodato hard rock di cui il gruppo è capace. Il pubblico se ne va felice e tramortito.
Gran concerto dunque e malgrado la qualità audio non sia proprio eccezionale questa è un bootleg da avere se ci si dichiara fan in senso stretto dei LZ. Che band, ragazzi, che band!
Avvertenze: da ascoltare in cuffia.
parola di Blog....
lella..
..altra testimonianza e commento
e ringrazio un amico per questo...
Uno spettacolo molto energico e ardente...La macchina strumentale è su un rotolo di palco, e Robert Plant anche se attento con la gamma della sua voce è ancora estremamente potente e alto.. La folla è rumorosa quasi da infastidire e ha portato subito Plant alla dichiarazione " Ogni volta che veniamo quì a Manchester ci sono molte persone che gridano, raffreddatevi un attimo e fate ascoltare la musica anche agli altri ogni tanto "...
Geremy Owens ricordava " Sebbene il concerto fosse di quasi 50 anni fa, ricordo ancora il suono incredibile prodotto dalla band, in particolare il suono prodotto dall' arco di violino di Jimmy Page, le mie orecchie fischiano ancora... Ho viaggiato da Plymouth, poi da Manchester a Austin Westminster per questo concerto, ho bruciato più petrolio che benzina per arrivare lì ma la pazienza di solito paga, e i quattro Zeppelin lo fecero con un concerto straordinario...dopo 49 anni, il suono non è mai stato migliorato da altre band o dalle moderne apparecchiature audio di adesso... Ricordo che andai alla stazione ferroviaria per prendere 2 biglietti del treno da Liverpool a Manchester, dopo alcune ore in fila decidemmo che era meglio andare in macchina... Abbiamo poi parlato con gli altri e spiegato qual' era il nostro piano... Il botteghino era aperto dalle 10 di mattina, e una delle persone che era già lì disse che stava andando nel centro di Liverpool alla biglietteria di Whitworths a prendere dei biglietti per Rory Gallagher, ma disponibili c' erano ancora molti biglietti per gli Zeppelin, e la fila un pò si era ridotta... Poco dopo il tale ritornò e ci disse " Se state cercando i biglietti per gli Zeppelin a Manchester li stanno vendendo nel negozio di dischi "... Radunai velocemente i miei compagni di viaggio e andammo...Tutti di corsa nella direzione di Manchester, tutti sudati arrivammo nel negozio di dischi e non c' era nessuno in giro e nessuna coda, molto strano....Dentro il negozio era vuoto, ancora più strano, sono andato al bancone e ho chiesto alla signora " hai biglietti per i Led Zeppelin al Manchester Hardrock ??? "...Lei rispose " Sì...quanti ne vorresti ??? " Non potevo credere alle mie orecchie, ne ho comprati quattro e ho dovuto pagare un extra di 25p per biglietto, " spese di prenotazione " mi disse la signora... Poi tornai all' Empire, non potevo credere a quello che era successo, stavo sognando... Tornammo indietro e alle 10 il botteghino aprì, così poco dopo avevamo entrambi i biglietti anche per il concerto di Liverpool...Goduria smisurata... Quando è arrivata la data dello spettacolo a Manchester, siamo andati tutti molto presto perché non sapevamo dove fosse l' Hardrock... Questo spettacolo rimane il migliore che abbia mai visto, e veder suonare i Zeppelin dal vivo è stata una cosa che non si può descrivere con un' intervista... Ricordo che dopo il concerto c' era una fitta nebbia per il viaggio di ritorno agli scavi, il mio amico doveva sporgersi dal finestrino della macchina per vedere la linea bianca sulla strada, e notai che l' ufficiale del Pullman stava facendo lo stesso dal lato dei passeggeri per vedere dove era il marciapiede, ma non potevo sentire quello che gridava, perche' le mie orecchie risuonavano ancora, e risuonarono per i successivi tre giorni... Faceva freddo, non avevamo più una lira, intanto ci dirigemmo per il centro città, mentre le macchine della polizia scomparivano nella nebbia... Parcheggiammo nei pressi di una capanna dei macchinisti su una delle piattaforme vicino ai binari del tram... Non c' erano più treni per St.Helens fino al mattino, e molta gente preferì fermarsi lì anzichè affrontare il freddo.. Quindi siamo rimasti nel rifugio tutta la notte anche noi, c' era una stufa elettrica che aveva messo a disposizione il bar prima di chiudere...Non chiudemmo un occhio e non siamo riusciti a dormire, un pò per il freddo e un pò perchè eravamo così eccitati dal concerto "...
Robert Plant sta riprendendo il controllo della sua voce, inseguendo i versetti con potenza e sconforto durante una perfetta " Rock and Roll "... " Black Dog " è brutalmente hard, dove Jimmy Page si scioglie e fa sciogliere i fans attraverso il suo assolo chitarristico... Plant dimentica alcuni testi durante il primo versetto di " Misty Mountain Hop " il pubblico s' accorge ma farà il boato per incoraggiarlo... Jimmy Page è in fiamme e sbava in modo impressionante durante un' epica " Since I've Been Loving You "... Una performance veramente potente, una delle migliori nella memoria recente... Prima di " Dancing Days ", commenta le fondamenta della stampa musicale inglese in riguardo alla canzone... Dopo una lunga pausa " Bron-Y-Aur Stomp " inizia con un forte rumore di feedback proveniente dal basso di John Paul Jones... Le dita di Jimmy Page volano attraverso il fretboard durante una eccellente " The Song Remains the Same "... " The Rain Song " è fantastica, sarà il perfetto equilibrio di bellezza delicata con attacco fulminante...Mentre le richieste gridate continuano ad arrivare dalla folla sempre più chiassosa, Plant scherza " non importa, continueremo a suonare i numeri di Bill Fury tutta la notte " e questo prima di " Dazed and Confused " dove il passaggio alla solista con l' archetto presenta una grande Jam, con John Bonham che esplode violentemente con le sue bacchette, prima di un brek particolarmente duro nell' interludio di " San Francisco "... La sezione di chitarra solista è un' esplosione di energia grezza guidata dalla fulminea vena di Page nell' improvvisare... La parte finale del brano è inghiottita in wah-wah molto alto, mentre gli strilli e gli urli di Robert Plant echeggiano sulla folla sbalordita... Una prestazione incredibile, sentire per credere... " Stairway to Heaven " è afflitta da un feedback durante il versetto che da l' avvio a Bonzo per entrare rullando... Jimmy Page si diletta attraverso un ottimo assolo mentre John Bonham si tiene su un ritmo marziale... Plant introduce " Whole Lotta Love " come " una canzone che tipicamente caratterizza tutto quello che facciamo durante il nostro tempo libero "... Jimmy Page trascina la band in una Jam basata su un riff funky prima che il theramin freakout entri in azione.... Come una raffica di mitragliatrice Bonzo innesca l' esplosione fulminante della sezione di " Everybody Needs Somebody to Love "... La band entra poi in zona funky con " It's Your Thing " un brano del 1969 degli Isley Brothers, prima che Page partisse con l' assolo travolgente... Robert Plant salta sul solito boogie rap, dirigendosi dritto in una rivoluzionaria versione di " Bottle Up and Go " di John Lee Hooker... Page, Jones e Bonzo, si ritrovano improvvisando in un ritmo blues, mentre Plant combatte per ottenere il boogie, lo otterrà e tornerà in pista... Il medley corretto comprende " Boogie Chillen ", una interpretazione rauca di " Say Mama " di Gene Vincent, " Let' s Have a Party " di Elvis Presley, " I Can' t Quit You Baby " e " Goin' Down Slow " di Howlin' Wolf, purtroppo tagliata nel nastro... Mentre la band lascia il palco Plant dice alla folla " grazie tante, anche se abbiamo avuto un tempo molto sciocco quì "... Si ritorna per il bis e Jimmy Page ottiene da John Paul Jones e da John Bonham in una Jam ad alta velocità in mezzo al solo a cappella da parte di Plant durante " Heartbreaker ", dove Pagey brilla attraverso una chitarra solista suonata molto veloce con il versetto finale estremamente esplosivo...Robert Plant introduce " Immigrant Song " come " una canzone che viene ripresa in tutto il mondo, anche a Bangcock "... La band chiude lo spettacolo con una rapida e sporca " Communication Breakdown ".... Una prestazione assolutamente devastante, da sentire assolutamente...Il nastro registrato in Audience è chiaro e ben equilibrato, anche se sblatera un pò nelle frequenze più alte....
grazie per averlo postato a Roberto Magni..
Nessun commento:
Posta un commento