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Led Zeppelin
In cerca dell’angelo con l’ala spezzata
Page incomincia a battere il piede a ritmo. Il pezzo parte ed un tripudio di elettricità viva invade la stanza: perché c’erano amplificatori dappertutto lì dentro, da muro a muro, terribili, tutti vecchi e male in arnese, ma quando il sangue elettrico ne percorse i circuiti… magia: nacquero i Led Zeppelin!
Londra, inizio 1966. La birra costa tre scellini alla pinta, le strade sono piene di Mini Morris e le ragazze vanno in giro con la minigonna. In poche parole: la città è in fermento, e la febbre che la brucia si trasmette alla velocità della luce. Fra i tanti che ne subiscono il contagio, c’è anche lui: Michelangelo Antonioni, geniale cineasta italiano, autore di classici quali L’avventura, L’eclisse e Deserto rosso (vincitore, appena due anni prima, del Leone d’oro al miglior film al festival di Venezia).
Nel bel mezzo della lavorazione al suo nuovo progetto, il nostro uomo rilascerà una dichiarazione un po’ enigmatica ma anche un sacco emblematica: “Voglio quel gruppo nella mia pellicola, perché penso che faccia qualcosa di molto speciale”. Domanda a bruciapelo: cosa ha quel gruppo di tanto speciale che lo distingue da tutti gli altri in circolazione? Ma sopratutto: chi è quel gruppo? Allo scopo di dare una risposta a questi interrogativi, sarà d’obbligo gettare l’occhio fra le pagine ingiallite di alcuni rotocalchi d’epoca: infatti, un mese prima che il Time, in data 20 marzo ’66, pubblichi il suo famoso articolo sulla chiacchierata ma ancora misteriosa Swinging London, un altro magazine anglosassone, per la precisione un suo supplemento, impagina una foto che è anche un indizio.
Autore dello scatto: tale Colin Jones, che più tardi racconterà la difficoltà della session, per i tipi dell’Observer, con quella band: “Prima di allora non avevo mai incontrato un gruppo animato da un tale antagonismo interno”. Facciamo un gioco: riposizioniamo le coordinate spazio-temporali e mettiamoci al fianco di Colin-the-photographer mentre fa i suoi scatti. Bene, che cosa vediamo?
Innanzitutto notiamo una cosa: la tensione nell’aria è palpabile, le facce sono tirate, gli sguardi cupi, l’aggressività a stento trattenuta. Poi, c’è dell’altro? Sì, c’è: l’obiettivo di Colin-the-photographer ruota a 360° attorno ai quattro tipi intenti a maneggiare ciascuno il proprio strumento, e scopre che incarnano la perfetta sintesi della rivoluzione fatta di pop+moda+musica che ha da poco invaso la City. Già, ancora lei: la Swinging London, una vera calamita per gli artisti cosmopoliti e al passo coi tempi che vogliono capire da che parte soffia il vento nei mitici Sixties; gente cool, tipo il Michelangelo nazionale, o magari tipo lui: “Quaggiù gli agenti provocatori del cambiamento”, affermerà a metà 1965, in un’intervista ai Cahiers du Cinéma, il cineasta nonché sceneggiatore Joseph Losey, che si autoesiliò in Gran Bretagna dopo gli attacchi della macchina del fango anti-comunista messa in moto dal senatore Joseph R. McCarthy, “sono i giovani artisti, i pubblicitari, coloro che fanno tendenza, gli stilisti, i designer e i musicisti, tutti influenzati dal movimento pop”.
E fra quei tutti ci sono anche loro, i tizi di quella band: gli Who, per servirvi; alfieri dichiarati del movimento mod, sanno come cantare le sfighe dei giovani proletari e le ammantano di elettricità tagliente. Risultato: una bomba rock senza eguali! Eppure, nonostante Antonioni guardi a loro per Blow-Up, il suo nuovo film, destinato ad immortalare con epica ieraticità la nascitura Swinging London, loro… non colgono l’attimo fuggente: “Eravamo troppo anarchici per comportarci in modo ragionevole sul set”.
Tutto okay, Peter Dennis Blandford Townshend, per gli amici più semplicemente Pete: la tua band spacca di brutto, le canzoni pure, per non parlare poi della tua chitarra, che alla fine degli infuocati show degli Who tu sfracassi immancabilmente contro un ampli marca Marshall, suscitando l’eccitazione di torme isteriche di teenager ma anche di blasonati registi. Sì, perché ormai è chiara una cosa: Antonioni vuole assolutamente immortalare quel gesto iconoclasta nel suo film, costi quel che costi; un gesto che si è ormai trasformato da rito in mito, finendo per far parlare di sé aldilà della stretta cerchia degli adepti al culto, e aldilà dell’effettiva portata della sua valenza estetica (ribellismo? noia esistenzialista? menefreghismo? moda e basta? Una cosa è certa: quel gesto li riassume tutti!).
Piccola precisazione: a questo stadio delle riprese, il film prevede ancora la sequenza iniziale in cui appare un gruppo rock che prova in una stanza la sua performance. Antonioni è perplesso: oramai le ha tentate tutte e non sa più che pesci prendere. Gli Who sono roba forte, suonano la musica del futuro, ma creano anche un sacco di grane sul set. Ergo: non sono più della partita. I Velvet Underground saltano invece per un altro motivo: i permessi di lavoro non ottenuti. Antonioni è disperato. I suoi piani vacillano. Lui, però, non vuole rinunciare alle scene col gruppo. Poi, quando la faccenda sta per concludersi nel peggiore dei modi, ecco che… spunta un nome: gli Yardbirds. Un gruppo solido, non c’è che dire. Un gruppo che ha all’attivo un singolo di grandissimo successo: For Your Love, che suppergiù un anno prima ha sbancato le classifiche di mezzo mondo, e ha venduto più di un milione di copie.
For Your Love è un pezzo pop che più pop non si può: melodico, ritmato, fresco, ballabile. In una sola parola: è “perfetto” (per un gruppo che vuole giocarsi il tutto per tutto nella Swinging City di Beatles e Rolling Stones). C’è un unico neo in questa storia: forse quel pezzo pop è… come dire?… un tantinello troppo pop. Troppo almeno per un gruppo come i Gallinacci: loro suonavano il blues quando il blues (revival) esplose in quel di Londra, e lo suonavano in compagnia di uno dei più grandi harmonica players del Regno, Mr. Cyril Davies, bianco di pelle ma scuro nell’anima, volato fra gli angeli nel gennaio del 1964, allorquando collassò sul palco di un club a Twickenham, West London.
Peccato, peccato davvero: un talento scomparso troppo presto. Ma anche i Gallinacci hanno il loro talento: si chiama Eric Patrick Clapton, suona la chitarra elettrica da dio ed è un purista del blues. Nota bene: del blues non del pop! Ragion per cui, quando l’accattivante For Your Love sbaraglierà le classifiche di vendita, lui… storcerà il naso. Perché lui, quella roba lì, alla moda, non la suona e non la suonerà mai (beh, almeno per il momento…). Niente compromessi, per lui. Infatti sai cosa fa: lascia la band, ovviamente dopo la pubblicazione della “pietra dello scandalo”. Gli Yardbirds però non si scoraggiano, e lo sostituiscono: così entra nel gruppo un nuovo astro della chitarra elettrica, Jeff Beck, e assieme a lui c’è anche un nuovo manager. Nome all’anagrafe: Simon Napier-Bell. Segni particolari: ambizioso, anzi ambiziosissimo, e soprattutto poco disposto a lasciarsi sfuggire via l’occasione offertagli da Antonioni.
“Per poter filmare il gruppo nell’ambiente giusto durante l’esecuzione del loro pezzo Stroll On”, scriverà a proposito della scena più mitica di quel miticissimo lungometraggio la giornalista Valentina Agostinis, “Antonioni si affidò al valido team dell’art director Gorton, che ricostruì quanto più fedelmente possibile il Ricky-Tick Club negli studi della MGM, a Borehamwood, North London”.
Dunque, una messa in scena: il club à la page perfettamente riprodotto, le crepe sui muri identiche al millimetro, i poster originali con i nomi delle band in calendario, e infine il pubblico che balla e si diverte durante il concerto (no, il pubblico no: quello è vero, zero figuranti); e ancora: Jeff Beck che sfascia la chitarra contro l’ampli, mentre l’altro chitarrista gli sorride sornione e sembra godersela un mondo. Dopotutto, è l’unica chitarra rimasta in azione. Dunque: zero verità, tutta finzione (o quasi…).
Risultato: una sequenza memorabile, che farà la storia, tanto del cinema quanto della musica. Alla faccia del cinema verità, e di tutte quelle storie lì. Buon per loro, verrebbe da dire! Ma prima che nostra storia metta il turbo e (ri)parta in quarta, sarà bene ripercorrere il modo in cui l’astro dei nostri Gallinacci iniziò a brillare, si affievolì e poi si spense… dando vita ad una nuova fulgidissima stella.
Confuso e felice
“Ho un ottimo ricordo del periodo con gli Yardbirds. A parte un tour in particolare che ci ha quasi ucciso, è stato molto intenso. Musicalmente era un grande gruppo […], ogni musicista sarebbe andato di corsa a suonare con una band del genere. Era particolarmente buona quando ci eravamo io e Jeff Beck come chitarre soliste. Poteva diventare davvero qualcosa di eccezionale, ma sfortunatamente… non andò così” [Jimmy Page]
Autunno 1963, Crawdaddy Club, Richmond: i fu Metropolis Blues Quartet hanno cambiato il nome in Yardbirds dopo aver ascoltato i Rolling Stones, e ormai giunti al marzo successivo, si accingono a registrare il loro lavoro d’esordio a base di pezzacci blues e rhythm and blues dal tiro micidiale. Titolo dell’lp: Five Live Yardbirds! Formazione in campo: Eric “Slowhand” Clapton alla sei corde, Chris Dreja alla chitarra ritmica, Jim McCarthy alla batteria, Keith Relf alla voce e all’armonica a bocca, Paul “Sam” Samwell-Smith al basso. Luogo dell’esibizione: il Marquee, prima che si trasformi definitivamente da tempio della musica nera a cattedrale del nuovo rock made in England. Passano due anni. La band ha più successo in USA che in UK. Chiamatelo, se vi va, l'”effetto british invasion”. Certo è che non mancano i casini interni. C’est la vie.
Beatles, Kinks e Stones occupano le prime pagine dei newspaper, e il loro stile conquista il mondo, USA in primis. Dopotutto, sono o non sono gli alfieri della cosiddetta British Invasion? Gli Yardbirds, dal canto loro, si trovano spaesati: l’epoca del blues revival fedele-alla-linea ha lasciato il posto alle sonorità lineari ma inventive della nuova generazione di gruppi rock. Dunque, che fare?
Possibilità n°1: si potrebbe ripiegare testardamente sul proprio sound, e conservare lo zoccolo duro di fan che da sempre ti segue. Oppure…
Possibilità n°2: tanto vale adeguarsi allo spirito dei tempi e tentare di combattere ad armi pari i propri “rivali”.
Per la serie: se non riesci a sconfiggerli, unisciti a loro.
Gli Yardbirds optano per la seconda possibilità. Viva il pragmatismo! Quindi abbandonano il blues nella sua forma più pura, e con le blue notes fugge via anche Eric-il-manolesta. Niente paura, però. A sostituirlo ci penserà un tizio giovanissimo cresciuto a pane e blues e che sa decisamente il fatto suo. Il suo nome è Jeff Beck, e per quanto ci provi non riesce, né mai ci riuscirà, a fare l’ago della bilancia nei disastrati equilibri della band. Sia come sia, il gruppo ora naviga a vista; non tanto dal punto di vista puramente creativo, quanto piuttosto… Ma lasciamo la parola a uno che visse in prima persona i deragliamenti e i tentennamenti dell’ultima fase dei Gallinacci:
“Quando il gruppo registrò l’album conosciuto anche come Roger The Engineer”, ricorderà anni dopo il manager della band Napier-Bell, “era chiaro a tutti che si trattava di un capolavoro fatto di parti uguali di blues, pop e psichedelia; quel che invece non fu del tutto chiaro al momento, era che il bassista e co-producer del disco stava per abbandonare la nave”. Così fu. Samwell-Smith svanì nel nulla. Puff. Ora sì che il gruppo era nei guai.
Urgeva trovare un rimpiazzo: e lo trovarono, nella fitta schiera dei session men superprofessionali e superpagati di cui all’epoca faceva parte anche un chitarrista, tanto giovane quanto sgamato, destinato ad assurgere a protagonista assoluto di questa nostra storia. Ecco come lo ricorda il solito manager degli Yardbirds: “A quei tempi”, puntualizzerà anni dopo Napier-Bell, “Jimmy Page era considerato un ragazzo prodigio alla chitarra elettrica; aveva suonato nelle session nientepopodimeno che dei vari Stones, Kinks e Nico, solo per citare alcuni dei nomi con i quali “collaborò”.
Insomma: era un astro in ascesa a tutti gli effetti. Aggiungiamo un altro nome all’illustre lista di autori con cui suonò Jimmy: gli Who! Eggià, persino il gruppo di Pete Townshend e Roger Daltrey si avvalse dei servigi di Jimmy-capelli-da-paggetto-Page (o almeno così doveva andare, senonché Pete dimostrò di sapere il fatto suo alla sei corde, e Jimmy fu utilizzato “solo” come chitarra ritmica nel pezzo spartiacque I Can’t Explain). Ma Jimmy è stufo di essere un’ombra che si aggira fra gli studi di registrazione e nient’altro. Vuole di più. E dannazione farà di tutto per averlo:
“Detesto l’ambiente degli studi”, confesserà nel febbraio del 1966 ai tipi del Sunday Times Magazine l’uomo che da un annetto si è unito ai Gallinacci pop-blues, “a nessuno lì pare importare molto della musica. Comunque ho dei progetti al momento: imparerò a suonare il sitar che mi sono fatto arrivare dall’India, e passerò sei mesi assieme al maestro Ravi Shankar”. Ovviamente le cose non andranno così: infatti Jimmy – che già anni prima aveva visto balenare la possibilità di entrare a far parte degli Yardbirds, ed aveva rifiutato per timore di “stuzzicare” il “manolesta” Clapton – inizia a suonare il basso con la band.
Dura poco: Jimmy è un chitarrista blues coi controcazzi, e declassarlo al rango di bassista sarebbe un po’ come tenere in panchina Edson Arantes do Nascimento detto Pelé. Una cosa inconcepibile. Non si fa. Sicché, assieme a quell’altro prodigio di Beck, il nostro uomo diventa tipo… la seconda chitarra degli Yardbirds: ed ecco spiegato il sorriso sornione che solca il suo volto alla fine della scena spaccachitarra in Blow-Up. Dunque, una storia a lieto fine questa. Non proprio; perché non tutti nell’entourage della band saranno contenti della duplice leadership chitarristica in stile odd couple:
“Un giorno presi da parte Jeff e gli dissi”, confesserà poi quell’azzeccagarbugli di Simon Napier-Bell, ormai sempre più convinto che “dei gruppi rock non si vende tanto la musica quanto l’immagine”, “gli dissi: tu sei il fottuto genio del gruppo, e ingaggiare qualcuno che sia altrettanto bravo è pura follia”. Pian piano, come un fuoco che si consuma senza che un alito di vento lo estingua, l’élan vital degli Yardbirds svanisce.
Ora in Inghilterra spadroneggia il blues-rock duro e volitivo dei Cream di Clapton, e soprattutto fa bella mostra di sé l’hard-rock versione panzer di Jimi Hendrix, chitarrista di colore nativo di Seattle dalla capigliatura afro-rampicante. In entrambi i casi trattasi di power-trio: ossia di formazioni a tre, chitarra-basso-batteria, che sfruttano al massimo le dinamiche chiaro/scuro, veloce/lento già insite nel blues. Page prende nota: la lezione estetica è appresa, e non rimane che trovare il modo giusto per farla fruttare al meglio. In attesa che ciò avvenga, Jimmy prende confidenza col nuovo clima culturale giovanile, che pare cucirglisi addosso a pennello:
“A dire il vero”, confesserà in una delle sue numerose interviste in quello scorcio di Sixties, “mi piace vedere gente vestita in modo oltraggioso. In fondo stanno solo gettando via le catene della vecchia società. L’Inghilterra di oggi è completamente decadente, ma alla fine… chi se ne frega”.
Torniamo agli Yardbirds: il gruppo regala sempre meno gioie e sempre più grattacapi ai musicisti che ci suonano, e le occasioni di fraternizzare e stare assieme, da buoni amiconi, proprio come accadeva al tempo dell’esordio, si fanno sempre più rare; purtuttavia qualche eccezione c’è:
“Durante una delle loro notti libere a New York”, scriverà il critico musicale Stephen Davis nel suo tomo dal titolo Il martello degli dei, “il gruppo andò al Café Au Go Go per ascoltare un concerto di Janis Ian. A stupirli, però, fu il cantante folk che aprì la serata: Jake Holmes”. Ora concentratevi, chiudete gli occhi e immaginate di ascoltare anche voi la musica di quel tale: a colpirvi sarà soprattutto un brano che ha una scala discendente di bassi e un testo paranoico e bizzarro che allude chiaramente ad un trip allucinogeno andato storto.
Titolo del brano: Dazed And Confused. Non arrossite: non siete gli unici su cui quel pezzo ha fatto colpo, perché se solo ci foste stati anche voi quella notte in quello striminzito club newyorchese, avreste notato un drappello di strani tipi, vestiti con strani abiti, e con gli occhi piuttosto annebbiati, alcol o droghe, chissà. Solamente uno di loro ha un guizzo che gli brilla negli occhi. Quel tizio è Jimmy Page. Perché ci sono invenzioni che sono destinate ad essere inventate non una bensì due volte. Ed è proprio quel che sta per accadere ora: “Nell’aprile del 1968”, si può leggere sempre nelle pagine del tomo del summenzionato critico, “gli Yardbirds tornarono negli Stati Uniti, per un tour delle università e dei locali psichedelici che rappresentavano la principale fonte di pubblico per il nuovo progressive rock”.
Tenuti in piedi da pillole, iniezioni e droghe, i Gallinacci si preparano a suonare all’Anderson Theatre, un localaccio newyorchese male in arnese, a pochi isolati dal Fillmore East dell’impresario rock Bill Graham. All’apparenza, il concerto non ha niente di speciale: una location di routine, una come tante, nella carriera degli anglosassoni. Invece…
“Gli Yardbirds si sono presentati sul palco”, riporterà all’indomani un quotidiano locale, “ed hanno aperto col loro cavallo di battaglia, Train Kept A-Rollin”. Fin qui, tutto regolare: una scaletta nella norma. Ma alla fine dello storico pezzo ecco che ne inizia un altro: è un pezzo monstre, che pare la colonna sonora di un film dell’orrore, perché è zeppo di pause studiate ad arte e colpi ad effetto. Ma c’è dell’altro: qui Page suona la sua chitarra con l’archetto da violino, e la mente va subito a quei bluesmen della tradizione, Robert Johnson in primis, che si dice abbiano venduto l’anima al diavolo e ne abbiano ricevuto in cambio la grande arte.
“Sto solo cercando un angelo con un’ala spezzata”
Page ora è uno di loro. Benvenuto nel club. Ed ecco che Dazed And Confused – proprio quella Dazed And Confused che fece luccicare gli occhi al nostro uomo quando l’ascoltò per la prima volta dal vivo – si è trasformata in qualcosa di cui i vecchi Yardbirds non sarebbero stati capaci senza di lui. È diventata tipo… una interminabile cavalcata epico-infernale, colma di dolore, o forse è piacere? Tipo certi poemi che lacerano la carne viva e toccano in sorte solo ad un numero ristretto di vati illuminati (William Blake, se ci sei, batti pure un colpo…). Fantastico. Ormai gli Yardbirds sono kaputt, finiti, andati. Jimmy Page suona ancora con loro, eppure la sua mente vola lontano, verso lidi ancora inesplorati. Le parole del buon Chris Dreja ci spiegano perché:
“Jimmy ce la mise tutta per inserirsi nella formazione e per dare il suo contributo alla musica. Aveva un atteggiamento estremamente professionale, era molto rapido, mentre noi all’epoca in cui si unì nel gruppo, sembravamo una plebaglia degenerata”.
In fondo la verità è sotto gli occhi di tutti: il resto della band viaggia con le batterie scariche, a velocità ridotta, mentre Jimmy è fresco come una rosa ed entusiasta come un pivellino. Robe da matti. Certi tizi sono come le acque chete, che quatte quatte rompono i ponti. Ecco, Jimmy è così. O almeno questa è l’opinione del resto della sua quasi-ex-band: “Ci usò come piattaforma di lancio per se stesso”, piagnucolerà a metà anni Settanta il solito Dreja, “mettendosi a suonare la chitarra con l’archetto e menate del genere”.
A questa insinuazione non priva di fondamento, ma nel complesso piuttosto ingenerosa, il nostro uomo risponderà in due modi: 1) Attraverso i fatti (lo vedremo fra poco…); 2) Attraverso una delle sue frasi meno note ma forse più incisive; perché cattura l’essenza della sua estetica in fieri, fatta di opposti che si cercano e combattono, e alla fine raggiungono una sintesi incomparabilmente poetica: “Sto solo cercando un angelo con un’ala spezzata”. Ecco, la frase è questa. Le frasi celebri sono come i divi del cinema: ognuno ha il suo preferito.
Alcuni prediligono l’invito al coraggio visionario di uno Steve Jobs (“Siate affamati! Siate folli!”), altri preferiscono invece i detti della sapienza orientale e la calma che ne deriva (“Il fiume vince sempre non grazie alla sua forza ma alla sua perseveranza”), e poi ci sono le massime che parlano del superare se stessi, del diventare ciò che si è, saltando a pie’ pari i propri limiti (tipo questa del pittore Van Gogh: “Se una voce dentro di te continua a ripeterti “non sarai mai in grado di dipingere”, allora dedicati alla pittura con tutto te stesso, e vedrai che quella voce sarà messa a tacere”).
La massima di Page appartiene invece a una categoria a parte: infatti dice non dicendo, e non dicendo dice. Qualcuno la definirebbe criptica, o magari sdolcinata e falsamente poetica, o addirittura inconsistente. Invece no. È una frase potente, che in poche parole racchiude lo slancio di chi vuole elevarsi da quaggiù a lassù, di chi sa che può volare alto ma non ha ancora le ali per farlo. E a proposito di parole, sarà il caso di seguire Richard Cole, il nuovo tour manager dei Gallinacci, sin dentro al Salvation, la discoteca del momento lì a New York. Perché una certa sera, affianco a lui ci sono il bassista John Entwistle e il batterista Keith Moon degli Who che sparlano del cantante e del chitarrista del loro gruppo, cioè di Daltrey e di Townshend, quand’ecco che uno dei due dice all’altro:
“Amico, lasciamo la band e formiamone una tutta nostra. La chiameremo Lead Zeppelin, lo Zeppelin di piombo, perché non avrà un cazzo di successo”
Queste parole nascondono un gioco di parole: infatti in inglese l’espressione idiomatica go over like a lead balloon significa per l’appunto qualcosa tipo… fare fiasco. Così Richard Cole ritorna in albergo, mezzo ubriaco, e racconta la storiella di Keith, John e dello Zeppelin di piombo. La racconta un po’ a tutti, proprio come fanno gli avvinazzati, che ti prendono per un braccio anche quando non li conosci e ti raccontano i fatti loro. Soprattutto la racconta a lui: Jimmy-il-fenomeno, che all’apparenza sembra prenderla per quel che è, ossia una tipica storiella su due rockstar deluse che cazzeggiano al bar. Invece poi…
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