..ricordiamoci di raccontare favole e di raccontarcele..
illuminano la mente e ne allargano visione..
Buona domenica anime belle
Favola della domenica – Il segreto svelato
C’erano una volta quattro amici che volevano raggiungere la cima di una montagna. Si trovavano all’altitudine di 1.200 metri e si erano prefissati di arrivare a quota 2.500.
La cima si stagliava contro il cielo estivo appena solcato da qualche nuvola. Sui fianchi del monte spiccavano estesi nevai che riflettevano la luce del sole.
“E’ uno spettacolo fantastico” esclamò Ugo, sistemando lo zaino dietro le spalle.
“Andremo presto a guardarlo da vicino” disse Sandro.
“Dobbiamo aspettare solo fino a domani” osservò Flora, la sua ragazza.
Si trovavano in mezzo a un bosco di larici, abeti e fiori selvatici. Il profumo del luogo si confondeva con il rumore dell’acqua del torrente che scorreva più in basso e che li accompagnò lungo il sentiero nel tragitto di ritorno.
C’è qualcosa di magico, qui” sussurrò Rosella, osservando due farfalle gialle.
“Più ancora ce ne sarà domani, sulla montagna”.
“Vorrei proprio svelare il segreto di tanta magia” aggiunse Sandro, fermandosi a guardare ancora una volta la punta del macigno dietro di sé.
La mattina successiva si alzarono alle cinque, dopo aver trascorso la notte sognando la prossima escursione. Alle sei erano pronti per mettersi in marcia.
Sandro era davanti a tutti. Nonostante l’incedere calmo e cadenzato, non vedeva l’ora di trovarsi in alto. L’aria era pungente ma il sole faceva capolino all’orizzonte. Si preannunciava una giornata splendida. Il bosco finì e iniziò il sentiero all’aperto.
Camminavano a passi brevi. Dopo due ore, il viottolo diede spazio a una strada ripida fatta di sassi e di roccia. Iniziarono ad arrampicarsi, con la mente rivolta all’obiettivo da conquistare. Dopo poco, ebbero bisogno di legarsi l’uno all’altro per superare un tratto ferrato sopra un dirupo. Dall’altra parte, c’era il nevaio bianco che rifletteva i raggi del sole.
Decisero di fermarsi per bere e riposare. Dalla base nevosa fuoriusciva un’acqua limpida e gorgogliante.
“Il cielo è di un bianco splendente” osservò Rosella.
“Mi sento stranamente rilassato” continuò Sandro.
“Non si vedono animali, non è strano?” disse Flora.
“Che vuoi dire?” chiese il suo compagno.
“Che mi sembra un paesaggio irreale, fantastico.” Ora il nevaio aveva assunto un colore ancora più bianco e luminoso.
“Non dipenderà dall’acqua che abbiamo bevuto?”. Furono investiti da strane impressioni.
“Vedi anche tu quello che vedo io?” chiese a un tratto Flora a Rosella.
“Che c’è?” chiesero gli uomini.
“Un omino piccolo piccolo.” Sandro si spostò di lato con un salto. Tanti esseri in miniatura lo circondavano.
“Devono essere folletti” disse Rosella senza alcuna paura. “Oppure elfi o gnomi o fate”.
“Dove siamo capitati?” si chiese Ugo, incredulo, affrettandosi ad aprire la carta dove erano riportate in modo minuzioso le indicazioni del percorso appena fatto e del nevaio dove stavano vivendo una strana avventura.
“Avremo preso un sentiero nascosto agli occhi umani” ipotizzò Sandro.
“E’ tardi, è ora di ripartire” gridò Ugo “non siamo venuti qui per rimanere ma per riposare e arrivare poi fino alla cima; non è così, forse?”
“Calmati, tra poco andiamo” disse Rosella che si divertiva a prendere in mano due o tre fatine che volavano intorno a Flora. Quando decisero di riprendere il cammino, furono seguiti e contornati dalle figure magiche che, invece di distrarli, aiutavano i ragazzi a salire e a superare i tratti più difficili. Impiegarono due ore. Alla fine, con un gran respiro liberatorio, i quattro amici giunsero alla vetta.
Si alzò il vento, arrivarono nubi dense di pioggia. Il cielo si oscurò. Si affrettarono a prendere la via del ritorno. Ora non c’erano più presenze straordinarie intorno a loro. Man mano che scendevano a valle si convincevano di aver avuto allucinazioni dovute alla fatica e all’altezza.
“Tutte le favole parlano di gnomi, fate ed elfi, ma nessuno dice di averli mai visti” disse Rosella quando furono di nuovo di passaggio sulla neve.
“Forse i bambini li vedono, ma nessuno crede alle loro parole” osservò Flora, appassionata maestra.
“Bisognerebbe dimostrare la loro esistenza, ma è impossibile” affermò Sandro.
“Coraggio, ragazzi, dimentichiamo l’episodio. E’ stato semplicemente un caso di suggestione collettiva” tagliò corto Ugo che, da medico, aveva imparato a non credere all’irreale.
Appena furono di nuovo nel bosco profumato di resina e di fiori, si fermarono a guardare la cima del monte appena conquistata.
“Forse, tutto sommato, non è sbagliato credere che esistano altri mondi accanto al nostro” ammise Ugo.
“Hai ragione” disse Sandro, ricordando di aver desiderato di svelare il segreto della montagna. “Siamo stati sfiorati da un mondo misterioso e magico e spero di avere il privilegio di incontrarlo ancora”. Provò, a questo pensiero, una gioia incredibilmente intensa.
Maria Rosaria Fortini
"Chi è che è stato contemporaneamente seduto alla tavola di Re Artù e marinaio con Ulisse nell’isola di Circe? Solo la lettrice, il lettore", scrive Roberto Saviano.
"chi legge è immortale"
"cosa cerchi?
Cerco un attimo che valga una vita"..
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La fiaba di Cenerentola è uno dei grandi classici della letteratura e della tradizione orale mondiale. Essa ha origine nell’Antico Egitto, ben 2.600 anni fa, e il nome della fanciulla destinata a diventare Regina è Rodopì, una schiava al tempo del Faraone Ahmose II, nel VI Secolo avanti Cristo.
Storicamente, il faraone Ahmose II in realtà sposò davvero una cortigiana di nome Rodopi, facendo di lei una regina, e la storia ci giunge grazie a numerosi fonti fra cui Esopo, che conobbe personalmente la donna. Durante il periodo di apertura alla Grecia dell’Egitto, la fiaba, mutata rispetto ai fatti originali del matrimonio fra Ahmose II e Rodopi, divenne eccezionalmente popolare, giungendo all’orecchio dei cantastorie di tutto il mondo.
La funzione pedagogica della favola, in quasi tutte le sue versioni, è racchiusa nella morale del sacrificio, attraverso il quale si può ottenere la più alta felicità, rappresentata un tempo dallo status sociale di principessa.
La versione dei fratelli Grimm, analogamente a quanto accaduto per Il Pifferaio Magico e Biancaneve, fu ampiamente rimaneggiata per esser resa accettabile dal grande pubblico. Nella storia originale il padre non è morto, ma vivo e connivente con la matrigna, che è il mezzo attraverso il quale le due sorelle comandano Cenerentola. Quest’ultima coltiva un albero di nocciolo, che altri non è che la reincarnazione sotto forma di vegetale della madre morta.
La defunta madre vestirà la figlia per i tre giorni del ballo, e saranno i colombi (aiutanti magici) a svelare al principe l’inganno delle due sorelle che avevano tentato di calzare la scarpetta. Queste infatti non si arrendono alla grandezza dei propri piedi, tagliandosi l’una le dita e l’altra il tallone pur di calzare la scarpa. Il sangue che fuoriesce dalla scarpetta tradirà le intenzioni delle due sorelle, le quali verranno addirittura accecate dai colombi durante il matrimonio di Cenerentola con il Principe.
Nella versione della tradizione orale tedesca le due sorelle furono addirittura condannate a danzare con calzature arroventate sino alla morte per sfinimento, analogamente a quanto viene riservato alla Madre di Biancaneve.
Quella di Perrault è la versione che maggiormente si avvicina a quella resa famosa dal cartone animato Disney del 1950. In questa variante i fatti sono assai edulcorati rispetto alla tradizione orale presente a quell’epoca, e la fata e i suoi aiutanti magici (topi e lucertole) sono a grandi linee quelli visti nel film hollywoodiano. La versione di Perrault venne scritta per compiacere la corte del Re di Francia, dove in un ambiente così regale poco si adattavano squartamenti e mutilazioni podaliche.
Cenerentola in Italia – La Gatta Cenerentola di Giambattista Basile – 1634
In Italia Cenerentola non è “benevola” come nelle altre nazioni, ma è addirittura un’assassina. Nella versione narrata dallo scrittore napoletano, infatti, la protagonista viene guidata da una matrigna diabolica, che per prima cosa fa uccidere alla ragazza la seconda moglie del padre, e poi comincia a torturarla insieme alle sei figlie tenute nascoste sino al momento del matrimonio. Anche il padre di Zezolla, questo il nome italiano, non è da meno, e si dimentica completamente della figlia una volta sposata la terza moglie.
Soltanto le Fate salveranno la giovane ragazza che, ovviamente, non verrà mai incriminata per l’omicidio della prima matrigna…
Cenerentola in Cina.
La versione cinese della fiaba parte da una condizione di bigamia del padre di Yeh-Shen, il nome in lingua originale. La madre naturale della ragazza muore, lasciando la figlia in compagnia del padre e della matrigna. L’unico amico di Yeh-Shen è un pesce, che viene ucciso dalla matrigna e servito per cena. Le ossa del pesce diventeranno l’aiutante magico della ragazza, che perderà la famosa scarpetta a una festa di paese. La scarpetta era così piccola che nessuna donna in Cina sarebbe stata in grado di calzarla, eccezion fatta per Yeh-Shen, che si recherà nella bacheca dove era esposta e verrà così scoperta dal Re.
La matrigna e le figlie gelose moriranno all’interno della propria grotta, uccise da una frana di massi.
Nella favola cinese è facile ravvisare la pratica del loto d’oro (fotografia sopra) che vedeva le ragazze di buona famiglia fasciarsi i piedi per renderli molto più piccoli rispetto a come sarebbero cresciuti in modo naturale. La pratica del Loto d’oro è una delle più terribili mutilazioni che furono perpetrate con continuità nell’antichità, e le vittime furono migliaia di donne cinesi, rese invalide a partire dall’infanzia.
Le altre versioni della fiaba.
Di versioni di Cenerentola ne esistono numerose altre, in particolare in Russia, dove sono differenti le storie raccontate. In genere si può dire che la giovane fanciulla caduta in disgrazia viene salvata da un “aiutante magico”, che le consente di compiere imprese al di fuori della sua portata.
L’aiutante magico è spesso un animale ucciso, che viene in soccorso di Cenerentola quando questa ne conserva e seppellisce le ossa
In tutta la produzione letteraria concernente la giovane destinata a diventare principessa è ravvisabile un intento pedagogico come concepito dalle “Fiabe del Focolare” dei Grimm, che mirano ad educare i bambini che le ascoltano mediante riferimenti, anche cruenti, alle difficoltà della vita reale.
https://www.vanillamagazine.it/cenerentola-una.../...
Storicamente, il faraone Ahmose II in realtà sposò davvero una cortigiana di nome Rodopi, facendo di lei una regina, e la storia ci giunge grazie a numerosi fonti fra cui Esopo, che conobbe personalmente la donna. Durante il periodo di apertura alla Grecia dell’Egitto, la fiaba, mutata rispetto ai fatti originali del matrimonio fra Ahmose II e Rodopi, divenne eccezionalmente popolare, giungendo all’orecchio dei cantastorie di tutto il mondo.
La funzione pedagogica della favola, in quasi tutte le sue versioni, è racchiusa nella morale del sacrificio, attraverso il quale si può ottenere la più alta felicità, rappresentata un tempo dallo status sociale di principessa.
La versione dei fratelli Grimm, analogamente a quanto accaduto per Il Pifferaio Magico e Biancaneve, fu ampiamente rimaneggiata per esser resa accettabile dal grande pubblico. Nella storia originale il padre non è morto, ma vivo e connivente con la matrigna, che è il mezzo attraverso il quale le due sorelle comandano Cenerentola. Quest’ultima coltiva un albero di nocciolo, che altri non è che la reincarnazione sotto forma di vegetale della madre morta.
La defunta madre vestirà la figlia per i tre giorni del ballo, e saranno i colombi (aiutanti magici) a svelare al principe l’inganno delle due sorelle che avevano tentato di calzare la scarpetta. Queste infatti non si arrendono alla grandezza dei propri piedi, tagliandosi l’una le dita e l’altra il tallone pur di calzare la scarpa. Il sangue che fuoriesce dalla scarpetta tradirà le intenzioni delle due sorelle, le quali verranno addirittura accecate dai colombi durante il matrimonio di Cenerentola con il Principe.
Nella versione della tradizione orale tedesca le due sorelle furono addirittura condannate a danzare con calzature arroventate sino alla morte per sfinimento, analogamente a quanto viene riservato alla Madre di Biancaneve.
Quella di Perrault è la versione che maggiormente si avvicina a quella resa famosa dal cartone animato Disney del 1950. In questa variante i fatti sono assai edulcorati rispetto alla tradizione orale presente a quell’epoca, e la fata e i suoi aiutanti magici (topi e lucertole) sono a grandi linee quelli visti nel film hollywoodiano. La versione di Perrault venne scritta per compiacere la corte del Re di Francia, dove in un ambiente così regale poco si adattavano squartamenti e mutilazioni podaliche.
Cenerentola in Italia – La Gatta Cenerentola di Giambattista Basile – 1634
In Italia Cenerentola non è “benevola” come nelle altre nazioni, ma è addirittura un’assassina. Nella versione narrata dallo scrittore napoletano, infatti, la protagonista viene guidata da una matrigna diabolica, che per prima cosa fa uccidere alla ragazza la seconda moglie del padre, e poi comincia a torturarla insieme alle sei figlie tenute nascoste sino al momento del matrimonio. Anche il padre di Zezolla, questo il nome italiano, non è da meno, e si dimentica completamente della figlia una volta sposata la terza moglie.
Soltanto le Fate salveranno la giovane ragazza che, ovviamente, non verrà mai incriminata per l’omicidio della prima matrigna…
Cenerentola in Cina.
La versione cinese della fiaba parte da una condizione di bigamia del padre di Yeh-Shen, il nome in lingua originale. La madre naturale della ragazza muore, lasciando la figlia in compagnia del padre e della matrigna. L’unico amico di Yeh-Shen è un pesce, che viene ucciso dalla matrigna e servito per cena. Le ossa del pesce diventeranno l’aiutante magico della ragazza, che perderà la famosa scarpetta a una festa di paese. La scarpetta era così piccola che nessuna donna in Cina sarebbe stata in grado di calzarla, eccezion fatta per Yeh-Shen, che si recherà nella bacheca dove era esposta e verrà così scoperta dal Re.
La matrigna e le figlie gelose moriranno all’interno della propria grotta, uccise da una frana di massi.
Nella favola cinese è facile ravvisare la pratica del loto d’oro (fotografia sopra) che vedeva le ragazze di buona famiglia fasciarsi i piedi per renderli molto più piccoli rispetto a come sarebbero cresciuti in modo naturale. La pratica del Loto d’oro è una delle più terribili mutilazioni che furono perpetrate con continuità nell’antichità, e le vittime furono migliaia di donne cinesi, rese invalide a partire dall’infanzia.
Le altre versioni della fiaba.
Di versioni di Cenerentola ne esistono numerose altre, in particolare in Russia, dove sono differenti le storie raccontate. In genere si può dire che la giovane fanciulla caduta in disgrazia viene salvata da un “aiutante magico”, che le consente di compiere imprese al di fuori della sua portata.
L’aiutante magico è spesso un animale ucciso, che viene in soccorso di Cenerentola quando questa ne conserva e seppellisce le ossa
In tutta la produzione letteraria concernente la giovane destinata a diventare principessa è ravvisabile un intento pedagogico come concepito dalle “Fiabe del Focolare” dei Grimm, che mirano ad educare i bambini che le ascoltano mediante riferimenti, anche cruenti, alle difficoltà della vita reale.
https://www.vanillamagazine.it/cenerentola-una.../...
https://www.vanillamagazine.it/cenerentola-una-macabra-fiaba-fatta-di-mutilazione-e-morte-a/?fbclid=IwAR3fhZZRd4W_FGvUjE-ZT9tGm_trZAyyi426oX7b5U9AxDSybHZBMpYBvHM
All’inizio del 1944, il fratello maggiore Lelio si era arruolato con i partigiani e Franco sognava di raggiungerlo, come racconterà la mamma Ada Basevi: «Era parecchio tempo che mi chiedeva: “Mamma, lasciami andare, voglio andare con i #partigiani”. Ma gli rispondevo sempre di no».
Il primo aprile Franco fugge e riesce a trovare i partigiani. Per essere accettato mente sulla sua età. Dice di avere 16 anni e gli viene affidato il compito di staffetta portaordini. La madre per lunghe settimane non saprà nulla del destino del figlio. Poi, finalmente, a casa arriva una lettera:
“Carissima mamma, dopo la mia scappata non ho potuto darti mie notizie per motivi che tu immagini. Ti do ora un dettagliato resoconto della mia avventura: partii così all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo. Camminai finché potevo poi mi fermai a dormire in un fienile in località Osteria Matteazzi. Al mattino, svegliandomi con la fame, ripresi a camminare in direzione di Gombola, sfamandomi con le more. Arrivai a Gombola verso le nove e di lì cercai i partigiani, deciso a entrare a far parte di qualche formazione. Riuscii a trovare patrioti che mi insegnarono la strada per andare al Comando che si trovava a Maranello di Gombola. Arrivai nella detta località stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’ mi si presentò l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello.
Sei contenta? Presentandomi a Marcello, fui assunto e siccome ho studiato, fui dislocato al Comando e attualmente mi trovo stabile relativamente sicuro in una località sopra a Gombola.
Così non ti devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima; solo un po’ precario il dormire. Per chiarire un increscioso incidente, ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare. Così, chiudo questa mia, raccomandandoti alto il morale, che ormai abbiamo finito.
Affettuosamente ti bacia e ti pensa il tuo tesoro.
Ti raccomando, appena ricevi la mia bruciala. Ancora ti saluto e ti abbraccio”.
Ciò che la mamma aveva fatto giurare a Franco era di non dire mai di essere ebreo, essendo per lui doppio il pericolo: appartenere al movimento partigiano ed essere ebreo. La #lettera però non fu bruciata ma chiusa in una bottiglia di vetro e seppellita. Futura testimonianza su quanto avvenuto alla famiglia Cesana.
Dopo alcuni mesi di silenzio, il 14 settembre 1944, Ada Basevi si vede comparire davanti il figlio che, nell'abbracciarla, le promette di tornare a casa il giorno del suo compleanno. Ma durante una missione con il fratello, viene ucciso da un gruppo di tedeschi. Mancavano sei giorni ai suoi 13 anni. Riusciranno a recuperare il corpo di Franco per portarlo alla madre proprio il 20 settembre, il giorno del suo compleanno.
Il significato del 25 aprile si impara sui banchi di scuola, alle elementari, quando a poco a poco inizia a emergere nella mente nebulosa dell’infanzia una forma di coscienza individuale e politica.
Sono sempre molte e varie le letture, le attività e le conferenze promosse dagli istituti scolastici in questa giornata. Eppure è innegabile che il significato del 25 aprile si apprende soprattutto grazie alle storie, alle testimonianze e, immancabilmente, alla poesia.
Una tra le letture più ricorrenti nelle scuole in questo periodo è una bella poesia di Gianni Rodari, intitolata La madre del partigiano che con parole semplici e particolarmente evocative riesce a fare breccia nell’immaginario dell’infanzia.
Come pedagogista Rodari sapeva bene descrivere la realtà della guerra e della morte trasformandole in una fiaba genuina, capace di dare un valido insegnamento pur senza suscitare orrore e terrore.
Rodari in questo componimento tramuta il sangue versato per la patria in un fiore vermiglio che ancora oggi ci parla con la forza evocativa di un simbolo.
Gianni Rodari riesce a descrivere una realtà drammatica rendendola poetica. In questo testo dà voce a una madre che ha patito il più atroce dei dolori: la perdita di un figlio.
Con rara intelligenza narrativa, l’autore trasforma il suo pianto in un’invocazione a favore della libertà e, con lo stesso processo di ribaltamento, la morte in vita.
Nella prima strofa Rodari si serve del contrasto come espediente descrittivo: il rosso del sangue appare in rilievo sul candore della neve. La contrapposizione sembra porre in evidenza l’ingiustizia della morte e l’innocenza della vittima cui è capitato quell’infausto destino. Le parole della madre dolorosa appaiono ridondanti come un canto, una specie di nenia, che tuttavia nell’avanzare assume via via il ritmo di una marcia patriottica.
La parola “libertà” ricorre significativamente tre volte, a ogni capoverso, come a scandire il tema fondante del testo.
Nella seconda strofa avviene la metamorfosi del sangue in un fiore vermiglio, il papavero simbolo del 25 aprile e dei caduti in nome della libertà. Il fiore che appare allo sciogliersi della neve diventa anche metafora di rinascita.
A questo punto l’appello della madre sembra rivolgersi direttamente alle nuove generazioni, ai nuovi nati, cui raccomanda di non dimenticare il sacrificio di suo figlio e di continuare anche in suo nome la lotta per la libertà che lui ha conquistato a prezzo della vita. Quella raccomandazione a “non strappare il fiore” è ancora una volta simbolica e sembra rivolgersi a tutti noi, divenendo un appello alla memoria in occasione del 25 aprile.
Infine, nella terza strofa, viene ripercorsa la storica avventura della Liberazione. La poesia ci riporta indietro nel tempo, a quell’incredibile primavera del 1945, che segnò la fine del nazifascismo nel nostro Paese.
Ecco che allora il giovane partigiano, vittima dell’artiglieria tedesca, viene eletto “guardiano della libertà”: il suo corpo ora riposa sotto la neve dei monti, ma il suo spirito rimane come intrappolato in quel luogo a fare da vedetta e a vigilare ancora.
Degno di nota è l’uso che l’autore fa delle varie sfumature cromatiche in questo brano: la neve “bianca”, il sangue “rosso” e infine i monti “azzurri”. In quell’azzurro che emerge cristallino negli ultimi versi, Rodari sembra riporre un presagio di speranza, non c’è alcuna oscurità, neppure nella morte. È come se il partigiano avesse assolto il proprio compito, elevandosi verso il cielo proprio come le vette dei monti che si smarriscono nell’azzurro.
Gianni Rodari associa alla parola “libertà” un obbligo della memoria, che ogni 25 aprile deve tornare viva, perché non si scordi il sacrificio di migliaia di partigiani che si batterono in nome di un ideale.
La libertà dunque non è percepita come una parola astratta, ma un obbligo morale: finché la Libertà continuerà a vivere i partigiani non saranno mai morti, e persino il dolore straziante di una madre potrà trovare consolazione
“La madre del partigiano”:
la poesia di Gianni Rodari dedicata al 25 aprile.
Sono sempre molte e varie le letture, le attività e le conferenze promosse dagli istituti scolastici in questa giornata. Eppure è innegabile che il significato del 25 aprile si apprende soprattutto grazie alle storie, alle testimonianze e, immancabilmente, alla poesia.
Una tra le letture più ricorrenti nelle scuole in questo periodo è una bella poesia di Gianni Rodari, intitolata La madre del partigiano che con parole semplici e particolarmente evocative riesce a fare breccia nell’immaginario dell’infanzia.
Come pedagogista Rodari sapeva bene descrivere la realtà della guerra e della morte trasformandole in una fiaba genuina, capace di dare un valido insegnamento pur senza suscitare orrore e terrore.
Rodari in questo componimento tramuta il sangue versato per la patria in un fiore vermiglio che ancora oggi ci parla con la forza evocativa di un simbolo.
Gianni Rodari riesce a descrivere una realtà drammatica rendendola poetica. In questo testo dà voce a una madre che ha patito il più atroce dei dolori: la perdita di un figlio.
Con rara intelligenza narrativa, l’autore trasforma il suo pianto in un’invocazione a favore della libertà e, con lo stesso processo di ribaltamento, la morte in vita.
Nella prima strofa Rodari si serve del contrasto come espediente descrittivo: il rosso del sangue appare in rilievo sul candore della neve. La contrapposizione sembra porre in evidenza l’ingiustizia della morte e l’innocenza della vittima cui è capitato quell’infausto destino. Le parole della madre dolorosa appaiono ridondanti come un canto, una specie di nenia, che tuttavia nell’avanzare assume via via il ritmo di una marcia patriottica.
La parola “libertà” ricorre significativamente tre volte, a ogni capoverso, come a scandire il tema fondante del testo.
Nella seconda strofa avviene la metamorfosi del sangue in un fiore vermiglio, il papavero simbolo del 25 aprile e dei caduti in nome della libertà. Il fiore che appare allo sciogliersi della neve diventa anche metafora di rinascita.
A questo punto l’appello della madre sembra rivolgersi direttamente alle nuove generazioni, ai nuovi nati, cui raccomanda di non dimenticare il sacrificio di suo figlio e di continuare anche in suo nome la lotta per la libertà che lui ha conquistato a prezzo della vita. Quella raccomandazione a “non strappare il fiore” è ancora una volta simbolica e sembra rivolgersi a tutti noi, divenendo un appello alla memoria in occasione del 25 aprile.
Infine, nella terza strofa, viene ripercorsa la storica avventura della Liberazione. La poesia ci riporta indietro nel tempo, a quell’incredibile primavera del 1945, che segnò la fine del nazifascismo nel nostro Paese.
Ecco che allora il giovane partigiano, vittima dell’artiglieria tedesca, viene eletto “guardiano della libertà”: il suo corpo ora riposa sotto la neve dei monti, ma il suo spirito rimane come intrappolato in quel luogo a fare da vedetta e a vigilare ancora.
Degno di nota è l’uso che l’autore fa delle varie sfumature cromatiche in questo brano: la neve “bianca”, il sangue “rosso” e infine i monti “azzurri”. In quell’azzurro che emerge cristallino negli ultimi versi, Rodari sembra riporre un presagio di speranza, non c’è alcuna oscurità, neppure nella morte. È come se il partigiano avesse assolto il proprio compito, elevandosi verso il cielo proprio come le vette dei monti che si smarriscono nell’azzurro.
Gianni Rodari associa alla parola “libertà” un obbligo della memoria, che ogni 25 aprile deve tornare viva, perché non si scordi il sacrificio di migliaia di partigiani che si batterono in nome di un ideale.
La libertà dunque non è percepita come una parola astratta, ma un obbligo morale: finché la Libertà continuerà a vivere i partigiani non saranno mai morti, e persino il dolore straziante di una madre potrà trovare consolazione
“La madre del partigiano”:
la poesia di Gianni Rodari dedicata al 25 aprile.
"Ci si abbraccia per ritrovarsi interi"
(Alda Merini)
𝐐𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐜𝐨𝐥𝐦𝐨 𝐝𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐢𝐚 ha di certo pervaso gli abbracci tra le italiane e gli italiani finalmente liberi, finalmente salvi.
𝐀𝐛𝐛𝐫𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚𝐭𝐢, mentre la testa dell'una affonda nel petto dell'altro s'era felici d'essere vivi, s'era ricchi nel ritrovarsi sani.
𝐈𝐥 𝟐𝟓 𝐀𝐩𝐫𝐢𝐥𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟒𝟓 𝐧𝐚𝐜𝐪𝐮𝐞 𝐮𝐧 𝐬𝐢𝐦𝐛𝐨𝐥𝐨: possiamo essere liberi, possiamo eliminare dalla nostra vita i soprusi.
Il Fascismo non fu solo un terribile evento storico, non fu soltanto il potere dato all'ignoranza più cieca, il fascismo non fu l'esaltazione del populismo criminale e della vigliaccheria armata IL FASCISMO E' UN ATTEGGIAMENTO dal quale ognuno di Noi deve liberarsi ogni volta che lo incontra, prima ancora di subirlo.
𝐁𝐔𝐎𝐍𝐀 𝐅𝐄𝐒𝐓𝐀 𝐃𝐈 𝐋𝐈𝐁𝐄𝐑𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐒𝐄𝐌𝐏𝐑𝐄!
"Forse ricordando che la liberazione è stata un'azione ma la libertà è un'eredità, sir"
"Un'eredità davvero preziosa, Lloyd"
"E una ricchezza che va preservata... sir"
"il caso del giorno" e guarda caso tutti commenti giornalistici fatti da uomini, che forse hanno qualche problema di rappresentazione..e soprattutto spesso incapaci e inetti,come si è visto ieri in una aula parlamentare..spero che Elly risollevi le sorti di un partito e che apra un pò di menti ottuse e non me ne frega niente se si fa fotografare da VOGUE o se ha un consulente per l'immagine, i suoi predecessori hanno fatto di peggio....quindi invece di darle addosso per motivi puramente estetici o di gossip( grande giornalismo!) giudichiamola sulle idee e sui contenuti!
e rammentiamo che quando ha vinto le Primarie certi hanno dato fiato alle trombe con i nomignoli più ignobili che si possa immaginare..
hanno fatto articoli dal Naso grosso, ai denti da cavallo..dalle sue origini ma soprattutto per le sue dichiarazioni sessuali..
anche io amo il mio essere una donna. tutte, nessuna e centomila
.amo il mio modo di essere non omologato e sono la persona più felice di questo Mondo, a differenza di altri che non riescono a fare pace nè con il cuore nè con la testa..
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...ringrazio questa vita che mi ha dato l'immensità dell'amore..
c'è un destino che accompagna ma noi abbiamo la capacità di renderlo immensamente meraviglioso..
noi siamo fatti di stelle..di luce..basta solo fermarsi a contemplarLe..
afferrarle al momento giusto e lasciarle libere di illuminarci la via...
poi con occhi e cuore liberi e leggeri ma carazzevoli
riusciamo a scrivere pagine che mai avremmo pensato di poter poi leggere da protagonisti e sentirci al settimo cielo!!
e niente può farci perdere l'ebrezza e l'equilibrio di camminare su di una nuvola..o di scalare montagne impervie..
il mare ci accoglie sempre..il fiume tranquillizza..il tuono ci riscalda..la quercia ci sorregge
Lella..
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29 aprile - Giornata internazionale della danza
"La danza è la più alta e antica di tutte le arti. Nella danza, si diventa strumento, canzone e creatore, e tutto il suo corpo suona senza la mediazione di parole e strumenti. ”- Mikhail Voloshin
..danzate sempre..soprattutto con il vostro cuore abbracciato all'anima
lella..
Sir, tutto bene?”
“Sì, Lloyd. Solo un po’ di malinconia, niente di grave”
“È perché sta guardando le nuvole, sir…”
“Dici, Lloyd?”
“Certo sir. Le nuvole sono create dal respiro del mare e dai sospiri degli uomini. E sia uno, che gli altri, sono ricolmi di storie“
“E questo cosa c’entra con la malinconia, Lloyd?”
“Può capitare, sir, che ogni tanto si riconosca in una nuvola qualcosa che si pensava di aver affidato al vento"
“Ed è una cosa che succede per caso, Lloyd?”
“Chi guarda il cielo cerca sempre qualcosa, sir. Quindi trovarci qualcosa non è mai un caso, ma sempre una fortuna"
“Grazie, Lloyd”
“Prego, sir”
IL PARTIGIANO
Quando a frotte passarono la frontiera
Mi fu detto, Stai attento e arrenditi,
Ma non lo potevo fare;
Presi il mio fucile e scomparvi.
Ho perso mia moglie e i miei figli,
Ma ho tanti amici,
E qualcuno di loro e' con me.
Una vecchia ci ha dato riparo,
Ci ha nascosti in soffitta,
E poi sono arrivati i soldati,
È morta senza dir niente.
Stamani eravamo in tre,
Stasera sono solo
Ma devo andare avanti;
Le frontiere sono la mia prigione.
Il vento, il vento soffia,
Tra le tombe il vento soffia,
La libertà arriverà presto;
E allora usciremo dall'ombra.
I tedeschi erano da me,
Mi dissero "Consegnati",
Ma non ho paura,
Ho ripreso la mia arma.
Ho cambiato nome cento volte,
Ho perso mia moglie e i miei figli,
Ma ho tanti amici,
Ho la Francia intera.
Un vecchio, in una soffitta
Ci ha nascosti per la notte,
I tedeschi lo hanno preso;
È morto senza sorprendersi.
Il vento, il vento soffia,
Tra le tombe il vento soffia,
La libertà arriverà presto;
E allora usciremo dall'ombra.
(Leonard Cohen)
Mi colpisce sempre molto quando qualcuno parla di «sostituzione etnica», così come mi stupiscono molto quegli pseudo-italiani che dicono che non dobbiamo usare parole di altre lingue.
Fidatevi, ve lo dice uno che riceve migliaia di commenti al giorno: chi non vuole l'ingerenza di parole straniere nell'italiano solitamente non conosce l'italiano. Io li chiamo «gli integralisti della lingua italiana».
Quelli che non vogliono che la lingua cambi (ma la lingua è una cosa viva, e cambia da sempre. Solo gli ignoranti pensano che la lingua dia delle regole prescrittive. La linguistica, la scuola danno delle regole «descrittive», ossia ci dicono come è la lingua. È come vedere un animale che non conosciamo e descriverlo. Non puoi obbligarlo a essere come dici tu. La lingua la crea il popolo e l'utilizzo che ne fa).
Quelli che non vogliono ingerenze di parole straniere. Ma l'italiano da solo non esisterebbe...
- senza l'arabo (parole come algebra, zero, cifra, limone, dogana...)
- senza il greco (praticamente il 20% dell'italiano che usiamo)
- senza il latino (guarda un po', non parliamo ancora latino! La lingua è cambiata!)
- senza il tedesco (birra, blindato, brindisi, francobollo, rubare...)
- senza il sanscrito (arancia), il persiano (pigiama), il turco (divano) e, ovviamente, l'inglese.
E queste altre lingue, senza l'italiano, senza i nostri latini tra l'altro, non potrebbero esprimere un bel po' di concetti!
Vale lo stesso per le nostre origini, veniamo da tanti miscugli di geni di tutte le parti del mondo che sarebbe impossibile rintracciarli!
Perciò davvero mi sfugge: come si fa a parlare un italiano puro? Solo che lo sento dire mi sento sprofondare in un pozzo di ignoranza e solitamente rinuncio a conversare con l'interlocutore che ha aperto la bocca.
"La vedo sorridente, sir"
"Finalmente dopo tanta siccità piove, Lloyd"
"Una bella lezione. Non trova, sir?"
"Quale lezione, Lloyd?"
"Non tutta la pioggia vien per nuocere. Eh, Lloyd?"
"Specie per chi non rinuncia a seminare, sir"
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede
(Eugenio Montale)
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede
(Eugenio Montale)
Ti aspetto qui. La scala non è poi così alta. I respiri del tempo sono lievi. E insieme si vede un cielo diverso, più morbido, dove si infila l’incanto.
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E' stato subito aggredito verbalmente soprattutto dagli stessi suoi colleghi docenti...
..la genialità..l'estro..la passione per le emozioni..
sono spesso considerate "diversità da bandire"..
camminiamo spesso con paraocchi, paraorecchi ma con una boccaccia piena di cose insensate..
quando ci troviamo di fronte a veramente qualcosa di sensato
quando il pensiero si slancia verso orizzonti diversi
si scatenano i mostri dentro le nostre piccole e minuscole menti
solidarietà piena e incondizionata
Lella..
Vincenzo Schettini: ‘Sogno una scuola con docenti davvero liberi. Ecco come intanto l’ho resa pop’
E’ riuscito a portare la scuola sui social per parlare con più facilità a tutti quei ragazzi difficili da catturare in presenza. Parliamo di Vincenzo Schettini, il prof de La Fisica Che Ci Piace che sta spopolando sui social, ma anche offline (è recentemente uscito con successo il suo libro “La Fisica Che Ci Piace”). E’ un fisico, un musicista, un prof influencer. Le due anime, quella artistica e quella scientifica, si sono fuse con l’idea di trasformare la fisica in vero e proprio intrattenimento. A Tuttoscuola ha raccontato come ci è riuscito.
Dicono che la scuola non sia “Pop”, anzi, da tanti è proprio ritenuta un argomento noioso. Eppure lei, che la scuola l’ha portata su TikTok, ha superato i 900mila follower… Ce lo deve spiegare: come ha fatto?
“Questa operazione è nata dal fatto che ho capito che la scuola poteva diventare “pop”. Perché la scuola è un bell’ambiente. Io quando studiavo avevo dei docenti “pop”. Erano pochi, ma erano “pop”. Questa è stata la prima intuizione: che la scuola è un ambiente bello in cui si può fare bene e in maniera efficace. La seconda cosa che ha attirato la mia attenzione sono stati proprio i social e il ruolo che avrebbero avuto in futuro. Se pensate a 10 anni fa vi ricorderete che all’epoca qualcuno iniziava ad aprirsi l’account Facebook. Pensate ad oggi: tutti hanno molto account e stanno sempre con il cellulare. A un certo punto ho capito che la scuola sarebbe diventata la nuova televisione e questo mi ha convinto a iniziare a fare lezione sui social, oltre che a scuola”.
TikTok è il social della GenZ, il suo funzionamento non è proprio immediato per gli adulti e il rischio di finire etichettati come Boomer è sempre dietro l’angolo… Starci è un modo per parlare a quei ragazzi che fisicamente, carne e ossa, sono diventati difficili da raggiungere?
“Sì, sicuramente. Così come per la mia generazione il modo per parlare a noi era la serata in pizzeria o l’atrio della scuola, mentre mangiavamo un panino e si fermava con noi qualche insegnante, adesso sono i social. E non dobbiamo dire “ahimè”, non dobbiamo pensare che sia un cambio negativo. E’ un cambio. Avverrà un altro cambio fra vent’anni, è così e basta”.
Meglio insegnare in presenza o online?
“E’ sempre bellissimo. Io mi trovo bene sia con i miei studenti in presenza, sia quando faccio lezione online. Per quanto mi riguarda ho un feeling particolare con le lezioni online, onestamente”.
Cosa dicono i suoi studenti?
“I miei studenti sono contenti. Quando finisco di fare lezione spesso si avvicinano con il libro o con il telefonino e vogliono un saluto per la mamma, per il papà, per la zia… E’ bello. Loro sono contenti, sono felici. Io da parte mia non sento di essere cambiato nei confronti delle mie classi. Ho meno classi, quello sì, sono in un part time di 6 ore…”.
Quali sono secondo lei i limiti della scuola italiana?
“Il limite principale è la gestione dall’alto. Nonostante le scuole abbiamo ormai la cosiddetta autonomia e potrebbero tecnicamente muoversi per conto loro, c’è sempre una certa centralizzazione in quello che si fa che si riversa, di conseguenza, sui professori. Altro limite grosso è che quella che avevamo chiamato “dematerializzazione” non credo sia davvero avvenuta. Vorrei capire una cosa: perché abbiamo la PEC, a che serve averla se non la usiamo per firmare a distanza? A che serve aver imparato a fare le riunioni a distanza durante la pandemia, se ora abbiamo smesso? La scuola continua a mostrare gli stessi limiti che mostrava 30 anni fa, ma con la differenza che oggi abbiamo il computer, lo smartphone e i tablet che ci permetterebbero di fare a distanza il 90% delle attività che continuiamo a fare in presenza. Io mi chiedo qui, oggi con Tuttoscuola: perché? Perché ci avete fatto fare la firma digitale se non possiamo utilizzarla? Tutta questa tecnologia serve solo ai ragazzi, ma non a noi. Questi sono solo alcuni dei limiti…”.
Uno dei limiti, glielo diciamo noi, è ancora la resistenza di tanti docenti di fronte al digitale… Cosa consiglierebbe a tutti questi insegnanti?
“Io non credo che ci sia questa resistenza. Mi spiego meglio: io i colleghi li conosco molto bene… Con la pandemia ci siamo dati da fare tantissimo. E’ grazie a noi docenti che la scuola è andata avanti. Dopo la pandemia i docenti hanno continuato a mostrare grande curiosità nei confronti del digitale. Quindi, più che “resistenza” dei docenti, c’è il fatto che molti si stiano ancora orientando, stiano cercando di capire cosa utilizzare del digitale, oppure cosa non utilizzare, perché c’è un’offerta grandissima e in testa può esserci anche una grande confusione. Io non vedo da parte dei colleghi una “resistenza”. Certo, c’è ancora una piccola parte di insegnanti che è convinta che il digitale non debba essere utilizzato, ma è un parte molto piccola…”.
Per lei la scuola del futuro è…?
“Per me la scuola del futuro è il docente libero, libero proprio da contratto, libero come me di andare in part time e decidere di lavorare anche online. Libero di decidere di lavorare un po’ in una scuola, un po’ in un’altra. Libero di muoversi. Vedo la figura del docente super libera. Vedo anche le classi slegate da questo meccanismo di cambio continuo delle lezioni che funzionava bene negli anni Settanta. Durante un convegno ho sentito parlare di come la figura di Leonardo fosse poliedrica. Mi sono chiesto: perché Leonardo era poliedrico? Dobbiamo rifletterci. Era poliedrico perché Leonardo faceva, usava le mani. Da quel “fare” si è incuriosito nei confronti di tanti campi, di tante materie. Se la scuola iniziasse a diventare questo, più laboratoriale, se permettesse ai ragazzi di ruotare (non ai docenti che oggi devono sempre stare dietro all’orologio), se cambiasse questo modo di fruire la scuola, cambierebbe totalmente il modo di imparare dei ragazzi. Oggi i ragazzi hanno una mente molto più aperta rispetto a prima. Se ai ragazzi gli fai fare contemporaneamente quattro percorsi di sapere, STEM, umanistico, linguistico e artistico (io aggiungerei anche le discipline fisiche), i ragazzi riescono a camminare parallelamente su tutti i percorsi. Sono molto più veloci di noi. Siamo noi ad essere lenti, ma non è colpa degli insegnanti che stanno facendo di tutto per adattarsi, per cambiare, per infilarsi nelle nuove tecnologie… Sto provando a dare voce a una scuola che era “polverosa”, a togliere un po’ di questa polvere. E’ questo quello che sogno per il futuro”.
" UN CAPOLAVORO SENZA TEMPO DI LEONARDO "
Ritratto di GINEVRA BENCI
La Donna è ripresa in tutto il suo chiarore diafano , con nitidi tocchi di luce sui capelli contro un ginepro ( donde l ' assonanza con il nome di Ginevra ) . L ' Artista , per meglio stendere il colore e rendere l ' epidermide più viva , ha usato le dita lasciando sulla tavola le proprie impronte . Sul verso del Quadro un cartiglio riporta la scritta :
" VIRTUTEM FORMA DECORAT "
( la Bellezza orna la Virtù )
Washington __ National Gallery of Art
(......... pubblicazione a cura di Antonio Sciarra )
"Il QI medio della popolazione mondiale, che dal dopoguerra alla fine degli anni '90 era sempre aumentato, nell'ultimo ventennio è invece in diminuzione.
È l’inversione dell’effetto Flynn. Sembra che il livello d’intelligenza misurato dai test diminuisca nei paesi più sviluppati. Molte possono essere le cause di questo fenomeno. Una di queste potrebbe essere l'impoverimento del linguaggio. Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l'impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso. La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, limitato al momento: incapace di proiezioni nel tempo. La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di “colpi mortali” alla precisione e alla varietà dell'espressione. Solo un esempio: eliminare la parola "signorina" (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all'estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l'idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie.
Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.
Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza nella sfera pubblica e privata derivi direttamente dall'incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole.
Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile. Più povero è il linguaggio, più il pensiero scompare. La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell - 1984; Ray Bradbury - Fahrenheit 451) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c'è pensiero senza parole. Come si può costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza il condizionale? Come si può prendere in considerazione il futuro senza una coniugazione al futuro? Come è possibile catturare una temporalità, una successione di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, e la loro durata relativa, senza una lingua che distingue tra ciò che avrebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che potrebbe essere, e ciò che sarà dopo che ciò che sarebbe potuto accadere, è realmente accaduto? Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata.
Perché in questo sforzo c'è la libertà.
Coloro che affermano la necessità di semplificare l'ortografia, scontare la lingua dei suoi “difetti”, abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana.
Non c'è libertà senza necessità. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza."
_Christophe Clavé
Dante Alighieri ci ha donato una lingua meravigliosa, opere meravigliose e assieme a lui molti altri.
Il 26 Aprile 1478, si compiva una delle pagine più sanguinose della storia di Firenze e dell’Italia intera: la Congiura dei Pazzi. In quel periodo, Firenze godeva di un magnifico splendore, frutto soprattutto della famiglia Medici, da sempre al centro della politica cittadina prima con Cosimo de Medici, per proseguire con Piero scomparso nel 1439, sino ad arrivare a Lorenzo (il magnifico) e Giuliano. Lorenzo si dimostrò subito di abile acume e di intelligenza sopraffina. Egli, seguendo l’esempio del nonno, controllava di fatto tutti i punti chiave della politica cittadina, senza però ricoprire cariche ufficiali. La congiura a scapito dei Medici, fu sicuramente alimentata dall’invidia della famiglia Pazzi, banchieri anch’essi fiorentini in storico attrito con i Medici.Una figura però spicca particolarmente in questa disputa interna a Firenze: Papa Sisto IV, il quale, probabilmente in maniera silente, appoggiò la congiura. Egli aveva infatti mire espansionistiche sulle ricchezze di Firenze, che sarebbero servite a finanziare le sue numerose opere, come la Biblioteca Vaticana, oltre che favorire i suoi nipoti, tra tutti: il Conte Riario. Il primo atto del Papa fu quello di esautorare i Medici dalle finanze pontificie, che vennero così affidate alla famiglia Pazzi. Ciò provocò non pochi problemi a Lorenzo, il quale vide svanire sia i forti utili ottenuti tramite le commissioni dell’amministrazione pontificia sia le commissioni sulle miniere di allume dei Monti della Tolfa. L’allume all’epoca era importantissimo per l’economia e tali miniere erano le uniche conosciute in Italia. Dirigere l’amministrazione di queste significava avere il monopolio del commercio di tale sostanza. La tesa situazione tra le due famiglie venne temporaneamente alleggerita dal matrimonio tra Bianca de Medici e Guglielmo de Pazzi, unione che sanciva di fatto un’alleanza tra le due famiglie più potenti di Firenze. Ad accendere la scintilla fu l’eredità di Beatrice Borromei. Quest’ultima, moglie di Giovanni de Pazzi, era la prima erede di Giovanni Borromei e alla sua morte avrebbe dovuto ereditare l’ingente patrimonio del padre, patrimonio che avrebbe di fatto aumentato smisuratamente le ricchezze dei Pazzi. Lorenzo fece quindi votare una legge retroattiva che impediva alle figlie femmine di ereditare il patrimonio paterno, facendolo così passare nelle mani dei cugini maschi. A peggiorare ulteriormente la situazione vi fu un prestito di trentamila ducati che la famiglia Pazzi aveva concesso a Papa Sisto. Tale concessione infatti era stata rifiutata da Lorenzo, il quale vietò anche agli altri banchieri fiorentini di accordarla, in quanto con quel denaro il Papa si sarebbe impossessato della Contea di Imola, geograficamente molto vicina a Firenze e vista pertanto come minaccia. La congiura prese piede con alleanze inaspettate. I congiurati infatti rappresentavano un gruppo abbastanza variegato di personalità importanti:
1) Papa Sisto: il quale diede un comando “pro forma”: “nessuno spargimento di sangue”. Esso fu ignorato dai congiurati che volevano l’eliminazione fisica dei Medici.
2) Francesco Salviati: arcivescovo di Pisa, si aggiunse ai congiurati spinto dalla vendetta nei confronti di Lorenzo de Medici, il quale gli aveva impedito di ottenere la cattedra fiorentina, favorendo così Rinaldo Orsini.
3) Girolamo Riario: nipote del Papa, avrebbe, una volta eliminati i Medici, guidato Firenze.
4) Repubblica di Siena: alleato prezioso trovato dal Papa.
5) Regno di Napoli
Il piano iniziale prevedeva l’avvelenamento dei due fratelli, avvelenamento che non fu possibile in quanto un improvviso malore di Giuliano ne impedì la presenza al banchetto organizzato in onore di Raffaele Riario, nipote di Sisto, eletto cardinale appena diciottenne. I due fratelli dovevano essere uccisi insieme, pertanto tutto fu rimandato al giorno dopo. L’azione prese vita la domenica successiva, il 26 Aprile, durante una messa nel Duomo di Firenze, officiata dal nuovo cardinale. Dopo aver ricevuto il rifiuto di Giovan Battista Montesecco, il quale non volle categoricamente compiere un atto di sangue per di più all’interno di una Chiesa, l’azione venne affidata a due preti, Stefano da Bagnone e Antonio Maffei da Volterra. Nello stesso tempo, Giuliano risultava ancora indisposto, così i sicari incaricati di ucciderlo, si recarono in casa sua e lo accompagnarono in chiesa; nel tragitto, lo abbracciarono e scherzarono con lui, accertandosi che non indossasse una cotta di maglia e che non fosse armato. Al momento dell’elevazione del calice, si compì l’atroce delitto: Bandini attaccò Giuliano alle spalle, colpendolo ripetutamente; lasciato poi Francesco de Pazzi inveire sul corpo di Giuliano, egli si scagliò contro Lorenzo de Medici, il quale riuscì a fuggire grazie ad Andrea e Lorenzo Cavalcanti, suoi scudieri e al sacrificio di Francesco Nori. Ferito e sotto shock per la morte del fratello, Lorenzo si barricò dunque all’interno della sagrestia, mentre Jacopo de Pazzi si incamminava verso Piazza della Signoria, gridando “ libertà”. La risposta dei Fiorentini fu però ben diversa da quella che si aspettava Jacopo, che fu costretto ad uscire dalle porte della città e a far ritirare l’esercito pontificio che attendeva di compiere il suo ingresso trionfale nella città di Firenze. Forte del favore popolare, Lorenzo diede libero sfogo alla sua feroce vendetta: Francesco de Pazzi e Francesco Salviati furono i primi ad essere impiccati a Palazzo della Signoria e pochi giorni dopo toccò a Jacopo e Renato de Pazzi. Bernardo Bandini riuscì a fuggire e a rifugiarsi a Costantinopoli, dove però venne catturato e consegnato ai Medici che lo giustiziarono impiccandolo. Un destino diverso toccò a Montesecco, il quale nonostante non avesse preso parte all’agguato, venne torturato al fine di rivelare i dettagli della congiura e ottenne di essere ucciso tramite decapitazione. Lorenzo, da abile stratega, non fece nulla per frenare l’impeto del popolo e pur non macchiandosi direttamente dei crimini, consentì la distruzione della famiglia Pazzi, i cui membri furono arrestati o esiliati e i loro beni confiscati. La damnatio memoriae terminò l’opera facendo scomparire per sempre il nome dei Pazzi dalla storia di Firenze. La congiura fu talmente traumatica che (secondo alcuni critici letterari) Luigi Pulci, grande amico di Lorenzo, una volta appresa la notizia, cambiò il finale del “Il Morgante”, inserendo la strage di Roncisvalle che richiamerebbe appunto alla congiura ai danni dei Medici.
Umberto Li Vigni
Cadmo e Armonia
La bella Europa, figlia di Agenore, era sparita. Il re di Tiro, non sapendo che l'amata figlia era stata rapita da Zeus ( per leggere questa storia: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=257098342961559&id=10018856865253, convocò gli altri suoi figli Cadmo, Fenice e Cilice; nel dolore e nell'ira, tra le lacrime, li squadrò uno ad uno con la sua solita severità e disse loro queste parole:
"Vi ordino di cercare vostra sorella ovunque. Non mi interessa dove sarete costretti ad andare né in quali pericoli vi potreste imbattere. Trovatela, anche a costo di superare i confini del mondo o di immergervi nelle oscurità dell'Ade. Non tornate senza di lei. Se doveste fallire sarete banditi dal regno! Ora andate!"
I tre fratelli rimasero in silenzio e non ribatterono. Radunata ognuno la propria scorta e servitù, si misero in marcia verso l'ignoto.
Ma la volontà divina non poteva essere contrastata con una semplice ricerca terrena: i tre, infatti, vagarono per tanto, troppo tempo, senza trovare alcuna traccia della sorella scomparsa. Ognuno di loro cominciò sempre di più a perdere la speranza, non solo di trovare la sorella, ma anche quella di tornare finalmente nel loro amato regno.
Ma il mondo era un posto immenso: avrebbero potuto trovare un nuovo posto in cui stanziarsi, avrebbero potuto fondare nuovi grandi regni, anche più grandi e gloriosi di quello di Tiro.
Così fecero: Fenice e Cilice divennero rispettivamente i capostipiti dei popoli dei Fenici e dei Cilici, fondando tante nuove città in Oriente.
Frattanto Cadmo non si era arreso, ma più continuava a cercare senza meta più i suoi sforzi si dimostravano vani. Decise così di recarsi all'Oracolo di Delphi per chiedere consiglio alla pizia, la quale, si diceva, parlava per il dio Apollo.
Il responso fu questo:
"Rammenta le mie parole, Cadmo, figlio di Agenore! Prendi la via fino a che arrivi dal pastore dell'armento del mortale Pelagon. Quando ci sarai giunto, scegli tra le vacche quella che ha su tutti e due i fianchi un inciso una macchia bianca di luna piena. Prendila come guida per la strada che continuerai a percorrere.
Ricorda anche questo: quando la vacca si inginocchierà e poserà per la prima volta la testa cornuta sul terreno, in quel punto dovrai sacrificarla alla Terra. Dopo aver fatto ciò, fonda sulla collina più alta una città dalle vie larghe e sconfiggi il custode di Ares, il dio della guerra. Così nel futuro sarai famoso tra gli uomini mortali ed avrai come moglie una immortale, o fortunato Cadmo!"
Dopo avere udito il responso, Cadmo si mise in cammino. Quando la vacca descritta dalla pizia uscì dall'armento di Pelagon la seguì per tutta la Beozia finché, ad un certo punto,non si sdraiò a terra per riposare.
Cadmo immolò quindi l'animale alla dea Atena e nel frattempo i suoi uomini erano andati a prendere dell'acqua in una fonte lì vicina. Ma quella fonte era custodita dal temuto servo di Ares di cui parlava la pizia: un pericolosissimo drago con tre teste che uccise tutti quanti gli uomini di Cadmo.
Cadmo riuscì però a sconfiggere il mostro e Atena gli consigliò di seminare i suoi denti, cosa che fece: ne nacquero all'istante dei guerrieri chiamati Sparti che cominciarono a combattersi tra loro, spinti dalla furia guerresca.
Da quello scontro ne sopravvissero solo cinque, che sarebbero diventati i primi abitanti della nuova città fondata in quel luogo, che prese il nome di Tebe.
Cadmo però fu costretto ad espiare un'ulteriore colpa: aveva ucciso infatti una bestia sacra a un dio, per questo fu costretto a servire Ares per otto lunghi anni. Dopodiché divenne il legittimo re della città che aveva fondato: Tebe, dove fece costruire sontuose mure (si dice che le avessero fatte i Ciclopi) che presero il nome di "Mura Cadmee", e sette immense porte.
In quanto aveva espiato umilmente le sue colpe dimostrando onore, Zeus concesse a Cadmo di sposare una dea immortale: Armonia, la figlia di Ares e Afrodite.
Alle nozze dei due parteciparono tutti gli dei dell'Olimpo e le Muse accompagnarono il tutto con la loro musica soave. I numi, inoltre, fecero agli sposi numerosi doni divini: uno dei più preziosi era una collana d'oro, forgiata da Efesto, che Afrodite diede a Cadmo, il quale la mise nel collo della sua sposa.
Cadmo e Armonia ebbero quattro figlie e un figlio. I loro nomi erano Semele, Agave, Autonoe, Ino e Polidoro. Da quest'ultimo sarebbe ne discesa la stirpe da cui sarebbe poi nato Edipo.
Dopo una vita e un regno lunghi e appaganti, Cadmo e Armonia lasciarono il trono al nipote Penteo e abbandonarono per sempre le mura Cadmee e la grandiosa Tebe dalle Sette Porte.
Tuttavia l'espiazione di Cadmo non era ancora compiuta del tutto: la colpa di avere ucciso un animale così sacro avrebbe richiesto una pena più grande. Gli dei decisero così di trasformarlo in un serpente, destinato a vagare con quelle sembianze per il resto della vita.
Armonia pregò però gli dei di fare lo stesso con lei; non avrebbe mai, per nulla al mondo, abbandonato il suo amore, anche a costo di diventare lei stessa un serpente.
Gli dei ascoltarono la sua preghiera: i due sposi così, dopo essere stati tramutato, si riunirono e restarano insieme per sempre.
Si dice inoltre che alla morte di Cadmo, Zeus, per compassione, trasportò entrambi gli sposi sull'Isola dei Beati, dove sarebbero rimasti uniti in eterno.
Alla Cadmea Tebe dalle Sette Porte sarebbe spettato un destino glorioso, ma la stirpe di Edipo avrebbe rischiato di ridurla in macerie, e con essa i suoi abitanti.
Ti aspetto qui. La scala non è poi così alta. I respiri del tempo sono lievi. E insieme si vede un cielo diverso, più morbido, dove si infila l’incanto.
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Molti uomini prendono la via più dritta e stretta.
Qualcuno prende la meno trafficata.
Io scelgo di tagliare attraverso il bosco.
e sai perchè??..
"le distanze non si misurano in km, ma in possibilità"
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Non smetteva di essere solare
neppure nei giorni in cui la nebbia
le avvolgeva l’anima
e la tristezza le graffiava il cuore.
Squarci di sorrisi
Indossava la sua malinconia
con leggerezza ed eleganza.
Parcheggiava la sua vita
e si guardava dentro,
in attesa che la nebbia si diradasse.
Perché lei non aveva mai fretta,
sapeva sempre aspettarsi.
Le piaceva vedersi tornare.
(Agostino Degas)
Angelo aveva tre anni quando un’assistente sociale lo portò a Villa Azzurra, «che di quel colore non aveva proprio nulla. 𝐂𝐢 𝐟𝐢𝐧𝐢𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐛𝐮𝐨𝐧𝐚 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐝𝐢 𝐦𝐢𝐚 𝐦𝐚𝐦𝐦𝐚 𝐦𝐢 𝐚𝐯𝐞𝐯𝐚 𝐚𝐯𝐮𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐮𝐧 𝐮𝐨𝐦𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐭𝐞𝐫𝐧𝐢𝐭𝐚̀ 𝐬𝐞 𝐧𝐞 𝐢𝐧𝐟𝐢𝐬𝐜𝐡𝐢𝐨̀ 𝐚𝐥𝐥𝐞𝐠𝐫𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞, non l’ho mai incontrato. Lei era giovane e sola, e lavorava come operaia in una maglieria.
[…] 𝐅𝐢𝐧𝐢𝐢 𝐧𝐞𝐥 𝐦𝐚𝐧𝐢𝐜𝐨𝐦𝐢𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐢 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐩𝐢𝐜𝐜𝐨𝐥𝐢. 𝐆𝐢𝐮𝐬𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐞 𝐮𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐦𝐢𝐧𝐞𝐬𝐭𝐫𝐚. Ovviamente questi sono pensieri che ho avuto dopo. A quell’età, di male potevo avere fregato solo i ciucci all’asilo. Poi, a Villa Azzurra, che era una caserma con le suore che punivano per ogni nonnulla, diventai oppositivo, come dicevano tutti. Ricordo che mi punivano e io scappavo per le grondaie sul tetto, mi nascondevo nei tombini, mi rifugiavo nella camera mortuaria in fondo all’Ospedale psichiatrico di Grugliasco.
𝐌𝐢𝐚 𝐦𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐦𝐢 𝐡𝐚 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐦𝐚𝐭𝐨 𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 e so bene che non lo sono mai stato, un angelo. Però, di fronte alla paura, non ho mai pensato di provare a fare pena. Ho sempre reagito alla paura con la rabbia, la protesta. Era la mia natura. E, come ho già detto, mi hanno definito un oppositivo. E, per la verità, molto altro. Ero curioso e la notte mi alzavo, uscivo scalzo dalla camerata, mi attirava la luce accesa nella stanza in fondo, dove stavano gli infermieri. Una volta vidi un’infermiera che faceva la festa a un infermiere, lo dissi alla suora e lei mi punì.
𝐂𝐨𝐦𝐢𝐧𝐜𝐢𝐚𝐢 𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐞𝐠𝐚𝐭𝐨 𝐚𝐥 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐨, 𝐨 𝐚𝐥 𝐭𝐞𝐫𝐦𝐨𝐬𝐢𝐟𝐨𝐧𝐞, 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐯𝐨 𝐪𝐮𝐚𝐭𝐭𝐫𝐨 𝐚𝐧𝐧𝐢. 𝐂𝐨𝐬𝐢̀ 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐧𝐭𝐚𝐢 𝐮𝐧 𝐫𝐢𝐛𝐞𝐥𝐥𝐞. Non scappavo soltanto. Rispondevo alzando anch’io la voce. Era arrivato Coda, lo psichiatra elettricista. Mi ha dato la scossa cinquantadue volte. Non mi ricordavo quant’erano state. Ho rubato la mia cartella clinica e là c’è scritto che Coda mi fece mettere la gommetta fra i denti e i due tappi alle tempie tutte quelle volte. A dire il vero, e questo me lo ricordo senza consultare le carte, secondo come gli girava, l’elettricità me la dava ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, oltre che alla testa. Diceva alla suora: «Si è fatto la pipì addosso? Sì? Insegniamogli a non farla più». Oppure bastava che lo avessi guardato storto. E mi faceva schiattare dalla paura, prima, ma cercavo di non darlo a vedere. Cercavo.
𝐔𝐧𝐚 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐭𝐚 𝐥’𝐞𝐥𝐞𝐭𝐭𝐫𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚̀ 𝐧𝐞𝐥 𝐦𝐢𝐨 𝐜𝐨𝐫𝐩𝐨, 𝐧𝐨𝐧 𝐜𝐚𝐩𝐢𝐯𝐨 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐧𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐞 𝐬𝐯𝐞𝐧𝐢𝐯𝐨. Saranno stati secondi, ma era come per quei bambini, fra di noi, che avevano le convulsioni. Partivi come un frullatore. Solo che eri tu, una persona. Non una macchina. Ho letto quello che ha detto un altro ricoverato cui avevano fatto l’elettroshock, a proposito dei movimenti del suo corpo: «Li senti come se fossero gli ultimi della tua vita». Io sono vivo, sono stato male, anche malissimo, più di una volta, ma non so, non lo so ancora cosa si prova quando si sta per morire. Ma sono d’accordo con questa descrizione. Era… mi sembrava che fosse come morire.
𝐓𝐮𝐭𝐭𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞. 𝐌𝐢 𝐚𝐛𝐢𝐭𝐮𝐚𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐢𝐧𝐨 𝐚𝐥𝐥’𝐞𝐥𝐞𝐭𝐭𝐫𝐨𝐬𝐡𝐨𝐜𝐤, 𝐧𝐞𝐥 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐞𝐦𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐝𝐨𝐦𝐚𝐧𝐝𝐚𝐯𝐨 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢𝐧𝐮𝐚𝐬𝐬𝐞𝐫𝐨 𝐚 𝐩𝐮𝐧𝐢𝐫𝐦𝐢 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐦𝐨𝐝𝐨. E quando mi svegliavo, ore dopo, se andava bene mi trovavo nel mio letto sul materasso, se no sulla rete: avevano tolto il materasso perché non si lordasse. In ogni caso io ero legato. Ricordo che prima di svenire me la facevo regolarmente addosso. Me ne accorgevo al risveglio. Sporco com’ero rimanevo così per ore, a volte anche per giorni, una volta per quattro giorni, e mi sporcavo ancora di più. Al centro della rete c’era il cuculo.
𝐂𝐞 𝐥’𝐚𝐯𝐞𝐭𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐥 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐜𝐮𝐧𝐨 𝐯𝐨𝐥𝐨̀ 𝐬𝐮𝐥 𝐧𝐢𝐝𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐮𝐜𝐮𝐥𝐨? Noi chiamavano cuculo il buco che veniva fatto in mezzo alla rete perché non ci sporcassimo. Ma c’erano le volte che non si poteva evitare di sporcarci. Dipendeva da come ti legavano. Se nella fretta ti legavano tutto storto non c’era niente da fare: te la facevi addosso. E restavi così.
𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐡𝐚 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨 𝐟𝐢𝐧𝐜𝐡𝐞́ 𝐮𝐧 𝐠𝐫𝐚𝐯𝐞 𝐢𝐧𝐟𝐨𝐫𝐭𝐮𝐧𝐢𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐥’𝐡𝐚 𝐦𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞. Non si è arreso, e dice: «Qualche carenza ce l’ho anch’io, ma non sono un paziente psichiatrico. Navigo con il computer, leggo, se posso dare una mano a qualcuno che ha bisogno lo faccio volentieri»
𝐺𝑟𝑎𝑧𝑖𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑠𝑖𝑚𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎!
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"𝐈𝐧𝐝𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞 𝐬𝐮 𝐀𝐥𝐝𝐚 𝐌𝐞𝐫𝐢𝐧𝐢: 𝐧𝐨𝐧 𝐟𝐮 𝐦𝐚𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐚𝐝𝐝𝐨𝐦𝐞𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚𝐛𝐢𝐥𝐞."
di Margherita Caravello
..se mio figlio ,affetta da autismo grave, fosse stato uno di quei tanti "angelo" di quei tempi,
se non avesse potuto avere una famiglia che lo ha curato,sostenuto,amato..
se non avesse avuto la guida di medici, persone umane soprattuto,di attenzioni, di baci, di abbracci,
non sarebbe più a questo Mondo oppure sarebbe finito in un dimenticatoio infame..
oggi..io madre di un figlio diversamente abile sono grata di essere una generazione diversa..
la conoscenza, ci porta avanti..l'ignoranza ci fà profondare..
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