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le storie dietro delle foto..perle rare
‘Incontro con gli dei’: l’intervista storica ai Led Zeppelin |
Nel 1975, nel pieno del loro ultimo tour, Jimmy Page e Robert Plant invitano Rolling Stone ad andare in tour con loro, per dare un'occhiata nelle loro suite e vedere cos'è che fa volare i Led Zeppelin
Il bassista e tastierista dei Led Zeppelin, John Paul Jones, gioca a backgammon e intanto ascolta un talk show radiofonico su New York FM. A un certo punto, il conduttore dice: «L’altra sera ero in un club e qualcuno mi ha chiesto se volevo incontrare Jimmy Page. Sapete, al mondo non c’è nessuno che io abbia meno voglia di incontrare del disgustoso Jimmy Page». Jones molla il suo gioco. «Lasciatemi dire una cosa», continua il conduttore, «i Led Slime sono degli incapaci e sappiate che, se avete intenzione di andarli a vedere domani sera al Garden, quei buffoni vi stanno fregando. Non fatemi perdere tempo, se avete intenzione di chiamare per difendere i Led Slime, mettete la testa nel cesso e tirate lo sciacquone». Jones che normalmente è un tipo molto tranquillo, si alza e attraversa la stanza infuriato. Prende il telefono e chiama la radio. Il conduttore prende la chiamata. «Di cosa vuoi parlare?». «Led Zeppelin», risponde Jones calmo, con il suo accento britannico. La linea cade. Lo scambio di opinioni non va in onda. È la solita battaglia, secondo Jones.
Nonostante i Led Zeppelin abbiano venduto più di un milione di copie di ognuno dei loro cinque album e si stiano preparando per fare un tour che ci si aspetta diventi il più redditizio nella storia del rock, sono stati costantemente presi a calci nelle palle da ogni critico sulla faccia della Terra. «So che non serve a niente reagire», mi dice Jones, «volevo solo difendermi un’ultima volta».La sera dopo, nella prima di tre serate al Madison Square Garden, i Led Zeppelin fanno cadere il pubblico ai loro piedi con uno dei migliori concerti in sei anni di carriera. Guidati da un’intuizione di Page, a metà scaletta si lanciano anche in una versione improvvisata di Dazed and Confused che dura 20 minuti.La tensione verso un successo che rimane comunque incerto nonostante tutto è un elemento evidente e molto elettrico nella loro performance. «Non c’è dubbio», ha detto Plant entusiasta prima di uscire sul palco per il secondo bis, Communication Breakdown, «il tour è cominciato».
È passato molto tempo dall’ultima volta in cui i Led Zeppelin hanno fatto del rock&roll. Dopo 18 mesi passati a lavorare duramente al loro nuovo album Physical Graffiti, Page, Plant, Jones e il batterista John Bonham devono scaldarsi un po’: «Dobbiamo sentirci a posto», dice Plant, «c’è molta energia in questo tour, molto più che nell’ultimo». La prima data, il 18 gennaio al Minneapolis Sports Center, è andata bene, considerata la situazione. Una settimana fa Page si è chiuso accidentalmente la mano in una porta di un treno e si è rotto l’ultima falange dell’anulare sinistro. Manca solo una prova per perfezionare quella che ora Page chiama «la mia tecnica con tre dita» e la band ha dovuto eliminare a tempo indefinito dalla scaletta pezzi classici come Dazed and Confused e Since I’ve Been Loving You. Pastiglie di codeina e una bottiglia di Jack Daniel’s hanno aiutato Page a tenere sotto controllo il dolore fino alla fine di tre estenuanti ore di concerto. La sua reazione all’infortunio è una specie di muta disperazione: «Non ho dubbi sul fatto che il tour andrà bene, è solo che – dannazione – sono rammaricato di non poter fare tutto quello che so fare». Batte il pugno dolcemente contro il palmo della mano ferita: «Voglio sempre dare il meglio, è frustrante avere qualcosa che ti limita. Puoi scommetterci: Dazed and Confused tornerà in scaletta appena sarò pronto. Forse non saremo fantastici per qualche sera, ma saremo sempre bravi».
https://youtu.be/ZQgYn23Xvck
Il tour è andato avanti in modo soddisfacente con tre date al Chicago Stadium seguite da Cleveland e Indianapolis, poi a Plant è venuta la febbre. Il concerto di St. Louis è stato posticipato fino a metà febbraio e mentre Plant si è fermato per curarsi, la band è andata a Los Angeles per un giorno di pausa. La sosta ha fatto bene a Plant, e i concerti successivi a Greensboro, Detroit e Pittsburgh sono stati uno migliore dell’altro, aprendo la strada alla vittoria roboante di New York e alla prima esecuzione dal vivo di Dazed and Confused nel tour. «Non abbiamo avuto molto tempo», dice John Bonham con un tono un po’ triste, «la musica è stata la nostra principale preoccupazione».
Questa intervista con Page e Plant si è svolta nel corso di due settimane. Abbiamo iniziato davanti a una tazza di tè nella suite di Plant all’Ambassador Hotel di Chicago e abbiamo continuato tre giorni dopo nella camera di Page, che ha le tende chiuse per tenere fuori la luce. «È ancora mattina», dice rabbrividendo mentre si copre con una coperta seduto sul divano, «dobbiamo parlare per almeno tre ore, prima che io dica qualcosa che abbia un senso». La conversazione va avanti fino al tardo pomeriggio, quando scopro che Page preferisce la luce delle candele alla luce naturale. Un incontro con Plant qualche giorno dopo fornisce altro materiale e gli ultimi dettagli me li dà Page su un aereo diretto a New York. «In questo tour io e Page siamo più uniti che mai», mi dice Plant dopo il concerto a New York, «siamo praticamente fusi in una sola persona».
I media non hanno riconosciuto la popolarità dei Led Zeppelin fino all’ultimo tour americano del 1973.
Plant: «Abbiamo deciso di affidarci per la prima volta a un’agenzia di comunicazione dopo il tour in America dell’estate del 1973. Era la stessa estate in cui qui c’erano anche gli Stones. Sapevamo che stavamo andando meglio di loro. Facevamo molti più incassi di altre band che venivano glorificate molto più di noi, quindi senza voler essere troppo egocentrici abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di dire alla gente qualcosa di noi, qualcosa di diverso dalle leggende secondo cui mangiamo le donne e poi gettiamo le loro ossa fuori dalla finestra. Sembrava che tutti sapessero qualcosa di noi, ma erano solo voci che giravano. Tutta quella follia era ok, ma noi non siamo e non siamo mai stati dei mostri. Siamo dei ragazzi a cui piace divertirsi, amati dai fan e odiati dai critici».
Vi sentite in competizione con gli Stones?
Page: «No, assolutamente. Gli Stones sono grandi e sono sempre stati grandi, i testi di Jagger sono fantastici, sempre dritti al punto. So che veniamo sempre considerati la più grande rock band del mondo, ma io non ci penso mai. È una competizione che non esiste. Il punto è chi fa buona musica e chi no, e chi è riuscito a mantenersi con quello che fa».
Arrivati a questo punto, qual è la vostra motivazione?
Page: «Adoro suonare. Se la questione fosse tutta lì sarebbe una specie di utopia. Ma non lo è. È aeroplani, limousine e guardie armate davanti alla porta delle nostre stanze in hotel. Non mi piace, ma è il prezzo che sono disposto a pagare per continuare a suonare. Negli ultimi 18 mesi, in cui ci siamo fermati e poi abbiamo lavorato al nuovo album, ero molto irrequieto».
Plant: «Io vivo una sorta di costante conflitto interiore. Mi piace molto la mia vita a casa: gioco a calcio nella mia piccola squadra, partecipo alle attività del quartiere, faccio quello che fanno le persone normali. Ma sono sempre pensieroso e malinconico, in preda a una sensazione che non riesco mai a eliminare: mi manca la band. Devo sempre chiamare Jimmy per tranquillizzarmi. L’altra sera, quando abbiamo ricominciato a suonare, avevo il sorriso più grande del mondo stampato in faccia».
Jimmy, cosa dici delle voci secondo cui stai facendo un disco solista?
Page: «È tutta colpa di Keith Richards e del suo senso dell’umorismo. Ho solo fatto quello che potrebbe essere il prossimo B-side degli Stones: una canzone intitolata Scarlet fatta da me, Keith, Ric Grech e un batterista di cui non ricordo il nome. È simile come atmosfera e come stile ai pezzi di Blonde on Blonde di Bob Dylan. L’abbiamo provata tutta la notte e poi siamo andati negli studi della Island Records, dove Keith ha aggiunto delle chitarre reggae. Io ho fatto un assolo, erano ormai le otto del mattino. Keith ha portato i nastri in Svizzera, qualcuno lo ha saputo e lui ha detto che era una canzone per il mio prossimo album solista. Non ho bisogno di fare un album da solo. C’è una chimica così forte nei Led Zeppelin che nessuno di noi si sente frustrato al punto di voler fare il suo disco. Non sono come Pete Townshend, che dice a tutti esattamente quello che devono suonare. In fondo, una band è una band, giusto?».
Siete riusciti ad andare avanti rimanendo impassibili in mezzo alle critiche, soprattutto agli inizi della vostra carriera. Quanto credete in voi stessi?
Page: «Forse non credo molto in me stesso, ma credo in quello che sto facendo. So dove sto andando musicalmente, vedo il mio percorso e so che sto andando più lentamente di quanto pensassi. Posso dirti che so anche quanto posso andare ancora avanti, e l’unica cosa che posso fare è continuare a suonare. Può sembrare strano quando pensi che ci sono artisti come John McLaughlin, uno che sembra suonare in un’altra dimensione. Forse è un po’ come la favola della lepre e della tartaruga. Non sono un chitarrista tecnico, prendo la chitarra e suono. Non ho tecnica, io mi occupo di emozioni. L’armonia è molto importante per me, ecco il punto in cui pensavo di poter migliorare. Devo continuare, ci sono così tanti stili e forme d’arte diverse dentro la chitarra: flamenco, jazz, rock, blues. Dimmene una e c’è. All’inizio il mio sogno era riuscire a fonderli tutti insieme, adesso la composizione musicale è diventata altrettanto importante. Inoltre credo che sia arrivato il momento di viaggiare, fare esperienze sul campo con musicisti di strada marocchini o indiani… Non sarebbe male viaggiare un po’ quest’anno. Non so cosa ne pensano gli altri, ma questa è la direzione che sto prendendo ora. Questa settimana sono uno zingaro, magari la settimana prossima sarò glitter rock».
Cosa credi che potresti guadagnare da questi viaggi?
Page: «Stai scherzando? Hai idea di cosa vuol dire sedersi a suonare con un musicista marocchino, come uomo e come musicista? È così che si cresce, non certo vivendo così. Ordinando dal servizio in camera in hotel. Bisogna stare esattamente dall’altra parte. Voglio che la situazione si sbilanci tutta da quella parte, fino a ritrovarmi da solo con il mio strumento e niente altro. Tanto tempo fa viaggiavo così, con una chitarra e basta, non c’è motivo per cui non debba farlo ancora. C’è sempre questo problema del tempo. Non si può comprare il tempo. È tutta una corsa contro il tempo, soprattutto nella musica. So cosa voglio ottenere, e non ho molto tempo. Mi era anche venuta l’idea di prendere un furgone di quelli che si aprono di lato e andarmene in giro per l’Inghilterra. Ti sembrerà una follia, ma in quella situazione così rurale si può fare. Apri il furgone e suoni con un mixer, un amplificatore e un grosso generatore. Puoi farlo per un po’ di tempo o in modo stabile. Mi piacciono i cambiamenti e mi piacciono i contrasti, non mi piace rimanere bloccato in una sola situazione un giorno dopo l’altro. La vita domestica non fa per me e neanche stare in questo hotel per una settimana. Mi parte la febbre del tour ed è lì che cominciano i danni. Ma non sono ancora arrivato a quel punto. Finora sono stato tranquillo, ma attenzione, il tour è iniziato solo da una settimana».
Ricordate il vostro primo tour in America?
Plant: «Avevo 19 anni ed ero innocente e naïf, certo che me lo ricordo! È passato molto tempo, oggi stiamo in albergo a leggere Nietzsche. C’era da divertirsi molto e c’erano anche molte più persone con cui spassarsela. Gli Stati Uniti erano più divertenti e Los Angeles era Los Angeles. La L.A. di adesso, infestata da 12enni sbandati, non è quella che piace a me. È la prima città americana che ho visitato, il primo posto in cui ho visto un poliziotto con la pistola e una macchina lunga sei metri. Era pieno di gente divertente, ci hanno accolto tutti calorosamente, siamo partiti con una botta di divertimento ed energia positiva. Ci tiravamo le uova da un piano all’altro dell’hotel, facevamo battaglie con i gavettoni, tutte quelle cose stupide che tutti i 19enni dovrebbero fare. Sono stati i primi passi per imparare cosa vuol dire essere folli. Molte delle persone che abbiamo conosciuto al tempo sono ancora con noi, altre sono sparite, qualcuno è morto di overdose, qualcuno è semplicemente cresciuto. Io non vedo la ragione per cui si debba crescere».
https://youtu.be/oBvxhp4JAe4
Sembri davvero sconfortato al pensiero.
Plant: «Beh, sì, lo sono. Non ho mai perso la mia innocenza, faccio sempre finta che non sia così. Sì, è un peccato. È anche un peccato vedere tutte queste ragazze giovani che si incasinano la vita per cercare di competere con le groupie dei vecchi tempi, le GTO e tutte le altre. Noi abbiamo nostalgia di loro e bei ricordi quanti loro ne hanno di noi. Adesso è una vergogna. C’è un pezzo su Physical Graffiti, intitolato Sick Again, in cui dico quanto mi dispiace per loro: “Tieni strette le pagine del tuo sogno adolescenziale nella lobby dell’Hotel Paradise / Nel circo delle regine di L.A. imparerai presto qual è la strada che porta verso il basso”. Hanno 12 anni, un attimo dopo ne hanno 13 e sono già oltre il limite. È una vergogna, non hanno lo stile che avevano le ragazze ai vecchi tempi, nel 1968. Non che non mi piaccia, ma la prendo sul ridere. È divertente. Mi manca tutto il casino. La corsa sfrenata dalle topaie agli hotel di lusso. È stato divertente, dallo Shadow Box Motel dove sette anni fa sono crollate le pareti durante la notte, all’Hotel Plaza di New York in cui il procuratore generale, che dormiva un piano sopra al mio, si lamentava perché ascoltavo i dischi dei Little Feat a volume troppo alto».
Quanto è stato difficile pubblicare il primo album dei Led Zeppelin?
Page: «È stato molto veloce. Lo abbiamo registrato subito dopo aver formato la band, le uniche prove che avevamo fatto insieme erano le due settimane di tour in Scandinavia, quando ci chiamavamo ancora The New Yardbirds. Per la scelta del materiale abbiamo scavato nelle nostre radici blues, ovviamente. Avevo anche un sacco di riff degli Yardbirds da parte. Quando Jeff Beck se n’è andato, il compito di comporre è passato a me. Clapton aveva creato un precedente piuttosto importante negli Yardbirds, Beck l’ha portato avanti, poi sono arrivato io ed era ancora più difficile, perché ero il secondo chitarrista che improvvisamente era diventato il primo. Ero sotto pressione, dovevo tirare fuori dei riff. Quindi nel primo album ero ancora profondamente influenzato dagli anni degli esordi, e credo che si senta. Lo abbiamo registrato in tre settimane, era ovvio che qualcuno dovesse prendere il controllo della situazione, altrimenti saremmo rimasti lì a improvvisare e a non combinare niente per mesi. Nel secondo album, invece, si sente l’identità della band».
Plant: «Con il primo album io ho scoperto le cuffie, prima non sapevo neanche cosa fossero. Quello che ci sentivo dentro mentre cantavo era meglio della ragazza più bella del mondo. Era pesante, potente, era devastante. Dovevo ancora migliorare molto come cantante, ma si sente l’entusiasmo di lavorare con la chitarra di Jimmy. Al tempo eravamo molto sfacciati e quello è diventato il nostro marchio di fabbrica. Stavamo imparando cosa piaceva a noi e al pubblico e il risultato erano sempre più ragazze che venivano nel nostro albergo dopo i concerti. Con il primo tour non abbiamo guadagnato niente. Neanche un centesimo. Jimmy aveva investito tutti i soldi che aveva messo da parte con gli Yardbirds, fino all’ultimo penny. Non erano molti, perché fino a quando non è arrivato Peter Grant a gestire i loro affari non hanno fatto i soldi che avrebbero potuto fare. Abbiamo registrato il disco e poi siamo partiti in tour con una crew composta da una sola persona».
‘Incontro con gli dei’: l’intervista storica ai Led Zeppelin (parte II)
La seconda parte dell'intervista del 1975, quando Jimmy Page e Robert Plant invitarono Rolling Stone in tour, tra suite e castelli scozzesi, per vedere cosa fa volare gli Zeppelin
Jimmy, una volta mi hai detto che pensi che la tua vita sia un gioco d’azzardo. In che senso?
Page: «Ti spiego perché: ero in una band, non dico il nome perché non è importante, ma era quel tipo di band in cui andavi in giro a suonare con il furgone. L’ho fatto per due anni, subito dopo aver finito gli studi, ho cominciato a fare dei bei soldi, ma mi stavo ammalando e quindi sono tornato al college a studiare arte. Un cambio totale. Ecco perché dico che è possibile. Ero totalmente dedicato alla mia chitarra e a suonare, ma sapevo che farlo in quel modo mi avrebbe ucciso. Ogni due mesi mi veniva la febbre, quindi per i 18 mesi successivi sono andato avanti con 10 dollari a settimana, cercando di recuperare le forze. Ma continuavo a suonare».
Plant: «Lascia che ti racconti la storia della canzone Ten Years Gone sul nostro nuovo album. Prima di entrare nei Led Zeppelin, lavoravo tantissimo, mi rompevo veramente il culo. Un giorno, una ragazza che amavo molto mi ha detto: “Io o i tuoi fan”. Non che avessi dei fan al tempo, però le ho risposto: “Mi spiace, non posso fermarmi”. Immagino che oggi sia felice, abbia una lavatrice nuova che fa tutto da sola e una bella macchina sportiva. Non avremmo più niente da dirci. Probabilmente io potrei anche starle accanto senza problemi. Lei però no, perché le riderei troppo in faccia. Dieci anni se ne sono andati, temo. Eccoti un gioco d’azzardo».
Page: «Io ne ho un’altra: studiavo arte al college e nel frattempo lavoravo come session man. Credimi, per alcuni lavorare come session man in studio è il massimo che si possa desiderare. Io ho rinunciato per entrare negli Yardbirds guadagnando un terzo perché volevo suonare. Non mi sembrava di suonare abbastanza lavorando in studio, anche se facevo fino a tre session al giorno. Stavo diventando una di quelle persone che odio».
https://youtu.be/XgXOW3lX25Y
Qual era il problema del lavoro in studio?
Page: «Alcune session erano un vero piacere, il problema era che non sapevo mai cosa avrei suonato e con chi. Certamente saprai che ho suonato anche in un disco di Burt Bacharach. È vero. Sapevo solo che mi dovevo presentare in uno degli studi dalle due alle cinque e mezza. A volte era per suonare con qualcuno che ero contento di conoscere, a volte mi dicevo: “Ma che ci faccio qui?”. Era un momento in cui la chitarra era molto in voga e quindi facevo assoli ogni giorno. Poi, quando ha preso piede lo stile alla Stax e i fiati, ho finito per non suonare quasi niente, giusto un riff qua e là e niente assoli. Mi ricordo una volta in cui mi hanno chiesto di fare un assolo su un pezzo rock&roll. Erano due mesi che non ne facevo uno e ho fatto una vera schifezza. Ero così disgustato da me stesso che ho deciso di mollare tutto. Mi stava facendo del male».
Come ricordi il periodo con gli Yardbirds?
«Ho ottimi ricordi. A parte un tour in particolare che ci ha quasi ucciso, è stato molto intenso. Musicalmente era un grande gruppo con cui suonare, non rimpiango nulla di ciò che ho fatto, ogni musicista sarebbe andato di corsa a suonare in una band del genere. Era particolarmente buona quando c’eravamo io e Jeff Beck come chitarre soliste. Poteva diventare davvero qualcosa di eccezionale, ma sfortunatamente non c’è molto materiale registrato di quel periodo. Ci sono Stroll On dalla colonna sonora di Blow Up, che è stata abbastanza divertente, Happenings Ten Years Time Ago e Daisy. Non passavamo molto tempo in studio. Ovviamente c’erano alti e bassi, tutti mi chiedono sempre di parlare delle liti e dei conflitti personali, ma non credo che la situazione sia mai diventata davvero insostenibile. Se presentato nel giusto modo, un disco di reunion degli Yardbirds potrebbe essere una buona cosa. Anche se Jeff non me lo vedo proprio a fare una cosa del genere. È davvero un tipo divertente».
Nella mia casa un uomo è stato decapitato e ogni tanto si sente il rumore della testa che rotola
Jimmy Page
Vivi nella villa appartenuta un tempo ad Aleister Crowley?
Page: «Sì, era sua, ma prima di lui ha avuto altri due o tre proprietari. Prima è stata anche una chiesa, che è stata bruciata e rasa al suolo con dentro tutti i fedeli. Sono successe molte cose strane in quella casa che non hanno niente a che vedere con Aleister Crowley. Ci sono sempre state vibrazioni negative. Un uomo è stato decapitato lì dentro e ogni tanto si sente il rumore della testa che rotola dalle scale. Io non l’ho mai sentita, ma un mio amico sì. Ed è uno assolutamente lucido e sobrio che non si è mai interessato alle storie di fantasmi. Pensava che fossero i gatti che andavano in giro per la casa. Io non c’ero e così ha chiesto al personale di servizio: “Perché non chiudete i gatti fuori la notte? Vanno su e giù per le scale e fanno un gran casino”. E loro: “I gatti vengono chiusi in una stanza ogni sera”. Poi gli hanno raccontato la storia della casa. Succedevano cose strane anche prima di Crowley, poi quando è arrivato lui ci sono stati suicidi, gente che è stata portata in manicomio…».
E tu non hai mai avuto contatti con qualche fantasma?
Page: «Non ho detto questo, ho solo detto che non ho sentito la testa rotolare giù dalle scale».
Cosa ti attrae di quel posto?
Page: «L’ignoto. Sono attratto dall’ignoto, ma prendo le mie precauzioni. Non mi lancio in esplorazioni a occhi chiusi».
Ti senti sicuro in quella casa?
Page: «Sì. Tutte le mie case sono un po’isolate, e a me piace stare da solo. Mi piace anche stare vicino all’acqua. La villa di Crowley è a Loch Ness, in Scozia. Ne ho un’altra nel Sussex dove passo la maggior parte del tempo. È abbastanza vicina a Londra ed è circondata da un fossato. Potrei raccontarti tante cose, ma non voglio far venire idee in testa alla gente. Sono successi episodi molto strani ma sono rimasto sorpreso dalla mia calma. Non voglio parlare delle mie credenze e del mio rapporto con la magia. Non sono George Harrison o Pete Townshend, non voglio convincere nessuno a seguire quello in cui credo. Sono profondamente convinto che se le persone sono in cerca di qualcosa e vogliono trovare delle risposte, lo devono fare da sole».
https://youtu.be/6tlSx0jkuLM
Hai visto Eric Clapton con la sua nuova band?
Page: «Oh cazzo, Eric. Sì, certo, l’ho visto suonare con la sua nuova band e anche al concerto al Rainbow. Almeno sul palco con lui c’era gente con le palle. C’erano Townshend e Ronnie Wood, Jimmy Carsten e Jim Capaldi. Pearly Queen è stata incredibile. Speravo che dopo quell’esperienza avrebbe detto: “Ok, voglio suonare solo con musicisti inglesi”. Da quando suona con gli americani è diventato sempre più pigro. Sono andato a trovarlo dopo il concerto ed è evidente che c’è rimasto male, perché i Derek & the Dominos non sono mai stati capiti. Deve essere stata dura per lui sopportare il fatto che non hanno avuto lo stesso successo dei Cream. Per i Led Zeppelin la chiave del successo è il cambiamento. Abbiamo fatto il primo disco, poi il secondo che non aveva niente a che vedere con il primo, poi il terzo totalmente diverso e via così. Questo è il motivo per cui abbiamo avuto solo recensioni negative: nessuno riesce a spiegarsi perché abbiamo fatto Led Zeppelin II e poi Led Zeppelin III con pezzi acustici come That’s the Way. Non lo capiscono. Io e Robert siamo andati a Bron-Yr-Aur nel Galles e abbiamo scritto della canzoni. Cristo, quello era il materiale che avevamo e quindi lo abbiamo inserito nel disco. Non abbiamo mai pensato: “Dobbiamo fare rock&roll duro perché abbiamo un’immagine da mantenere”. Di solito con i nostri album ci vuole almeno un anno perché la gente capisca cosa stiamo facendo».
https://youtu.be/oBvxhp4JAe4
Perché siete andati a Bron-Yr-Aur a registrare il terzo album?
Page: «Era arrivato il momento di fare un passo indietro. Fare il punto della situazione e non perderci. I Led Zeppelin stavano diventando grandi e volevamo che il resto del nostro viaggio fosse piacevole. Per questo siamo andati a rifugiarci in montagna, dove è nata la versione eterea di Page e Plant. Volevamo stare tranquilli e in pace e fare un po’ di blues californiano, e abbiamo trovato l’ispirazione in Galles invece che a San Francisco. Bron-Yr-Aur è un posto fantastico, il nome vuol dire: “La mammella dorata”. Si trova in una piccola valle illuminata dal sole. Nel nostro ultimo album c’è un pezzo acustico che Jimmy ha composto lì e che descrive perfettamente le nostre giornate passate a girare per la campagna con le jeep. È stata una buona idea. Avevamo scritto la maggior parte del secondo album in tour ed è per questo che al pubblico è piaciuto, nonostante quello che hanno scritto i critici. Quello che ha scritto la recensione per Rolling Stone, tanto per fare un esempio, è un musicista frustrato. Forse sono in preda a uno dei miei trip di egocentrismo, ma credo che le persone siano infastidite dal talento. Non mi ricordo neanche le critiche che abbiamo ricevuto, so solo che per quanto mi riguarda era un buon album scritto durante un tour, anzi era persino un grande album. Il terzo è l’album degli album. Se qualcuno ci aveva etichettato come una band heavy metal, con quello lo abbiamo distrutto».
Però c’erano dei pezzi acustici anche nel primo album
Page: «Esatto! Quando è uscito Led Zeppelin III, Crosby, Stills & Nash si erano appena formati e, siccome in quel momento le chitarre acustiche avevano preso il sopravvento nel rock, ecco improvvisamente la recensione: “I Led Zeppelin fanno un disco acustico!”. Ho pensato: “Cosa hanno in testa e soprattutto nelle orecchie?”. Nel primo album c’erano tre pezzi acustici e nel secondo due»
Jimmy, hai parlato della “corsa contro il tempo”. Come ti vedi a 40 anni?
Page: «Non so se ci arriverò, non so neanche se arriverò a 35. Dico sul serio, non lo so. Davvero, sono serio. Non credevo nemmeno di arrivare a 30».
Perché?
Page: «Era una paura che avevo. Non di morire, solo di…aspetta un attimo, lasciami spiegare… Sentivo che non sarei arrivato a 30 anni. Era una cosa congenita. Ora ho superato i 30, ma non me l’aspettavo. Non ho mai avuto incubi o cose del genere, non ho paura della morte, è il mistero più grande. Ma tutto nella vita è una corsa contro il tempo e non puoi mai sapere cosa succederà. Per esempio, mi sono rotto un dito, avrei potuto rompermi la mano e rimanere fuori uso per due anni».
Robert, i tuoi testi sono stati descritti come “parole senza senso da antiquato figlio dei fiori”.
Plant: «Cosa vuole dire “antiquato figlio dei fiori”? L’essenza di quel periodo era il desiderio di pace, tranquillità e idillio. È quello che vogliono tutti. Allora perché le mie sono “parole senza senso da antiquato figlio dei fiori”? Se è così, continuerò a essere un antiquato figlio dei fiori. Lavoro molto sui testi, ma non credo che tutto quello che scrivo debba essere esaminato e giudicato così attentamente. Black Dog è solo una canzone sfacciata del tipo “facciamolo in bagno”. Non importa il significato finché ottengono un risultato. La gente le ascolta. Altrimenti puoi cantare il menu del Continental Hyatt House».
Quanto è stata importante Stairway to Heaven per voi?
Page: «Per me cristallizza l’essenza stessa della band. C’è dentro tutto. Mostra la band al suo massimo, una band vera, unita. Non parlo degli assoli, semplicemente c’è dentro tutto. Non abbiamo mai voluto pubblicarla come singolo. Ogni musicista sogna di fare qualcosa che rimanga nel tempo, e credo che noi l’abbiamo fatto con Stairway. Pete Townshend probabilmente pensa di aver fatto lo stesso con Tommy. Non so se avrò la capacità di fare qualcosa di meglio. Devo lavorare duramente per arrivare a quel livello di totale e coerente grandezza. Non credo che ci siano molti artisti in grado di arrivarci. Forse una: Joni Mitchell. La ascolto sempre quando sono a casa, Joni Mitchell. Adoro il suo album Court and Spark e ho sempre sognato di vederla cantare con una band. Ha il grande talento di riuscire a prendere una situazione o un evento che le è capitato, fare un passo indietro, cristallizzarlo e poi raccontarlo in una canzone. Mi fa venire le lacrime agli occhi. È così dannatamente misteriosa. Mi ritrovo molto quando canta: “Adesso i vecchi amici si comportano in modo strano / Scuotono la testa / Dicono che sono cambiata”. Mi chiedo quanti dei suoi vecchi amici le siano rimasti, me lo chiedo di ogni musicista famoso. Ci sono poche persone che io posso definire come dei veri amici, e sono molto molto preziosi per me».
E tu, Robert?
«Sono abbastanza soddisfatto, ho intorno le stesse persone che ho sempre avuto. Sono i resti del mio passato beatnik. Sto molto bene con i miei vecchi amici, mi conoscono da tanto tempo e non sono sconvolti da quello che è successo nella mia vita. A volte mi prendono in giro, ricordando che devo due dollari a qualcuno dal ’63, quando ero un cantante blues senza soldi. Va bene. Sono felice»
C’è qualche chitarrista americano che vi piace?
Page: «Abbiamo perso il migliore di tutti, Jimi Hendrix. Anche l’altro che mi piaceva, Clarence White, è morto. Era geniale. Ha uno stile totalmente differente, ma mi piace quello che ha suonato nel singolo di Maria Muldaur Midnight at the Oasis, Amos Garrett. Lui è uno che segue le tracce di Les Paul, e Les Paul era il numero uno. Nessuno di noi avrebbe mai fatto niente, se lui non avesse inventato la chitarra elettrica. Un altro è Elliott Randall, che ha suonato nel primo disco degli Steely Dan. Un grande. Tra le band, i Little Feat sono i miei preferiti. L’unico termine che non accetto è “genio”. È stato usato troppo liberamente nel rock&roll. Se consideri le strutture melodiche composte dai musicisti classici e le paragoni con quelle di un disco rock, capisci che c’è un bel po’ di strada da fare. Nella musica classica esiste uno standard che permette di usare la parola “genio”, ma se provi a farlo nel rock&roll stai camminando su un filo. Per me il rock&roll è musica folk. Musica della strada, che non viene insegnata a scuola. Non ci sono geni nella musica da strada, ma questo non vuol dire che non possano essere molto bravi. Artisticamente il rock&roll ti ridà indietro quello che tu gli metti dentro. Nessuno te lo può insegnare, sei da solo. È questo che lo rende così affascinante».
https://youtu.be/tK1p4ZaTM10
Ultima domanda: il figlio del presidente Gerald Ford ha detto che i Led Zeppelin sono il suo gruppo preferito. Che ne pensate?
Plant: «Credo che sia veramente brutto che non ci abbiano ancora invitato alla Casa Bianca almeno per prendere un tè. Forse Jerry ha paura che combiniamo qualche casino. Se avessimo avuto un addetto alle pubbliche relazioni tre tour fa, adesso il figlio di Ford sarebbe in tour con noi. Mi ha fatto piacere sapere che alla Casa Bianca ascoltano la nostra musica. È bello sapere che hanno dei buoni gusti».
Un’ultima dichiarazione?
Page: «Sto ancora cercando un angelo con le ali spezzate. Non si trova facilmente. Specialmente se alloggi al Plaza Hotel»
https://www.rollingstone.it/…/incontro-con-gli-dei…/360779/…
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