Quando si parla dei più grandi batteristi di tutti i tempi, John Bonham viene invariabilmente. Sarebbe scioccante non sentire menzionato il nome del leviatano barbuto, poiché era l'uomo che da solo gestiva la sala macchine di una delle più grandi band di tutti i tempi: i Led Zeppelin.
Bonham era un genio in quanto ha sposato l'intelletto con la potenza pura, creando un suono del tipo che nessuno aveva mai sentito prima. Ha preso i suoi primi spunti dal jazz e dalla musica da big band e li ha sposati con l'atteggiamento sfrenato del rock 'n' roll contemporaneo. Questa diversità è ciò che gli ha permesso di offrire alcuni dei momenti di batteria più influenti della storia.
Ha riversato il suo cuore e la sua anima nel suo lavoro, e che si tratti di "Moby Dick", "Whole Lotta Love" o altro, il personaggio di Bonham colora il suono dei Led Zeppelin e senza di lui non sarebbero stati gli stessi. Si potrebbe anche sostenere che senza il suo contributo, non sarebbero stati in grado di conquistare il mondo così rapidamente, dato che era la migliore zavorra immaginabile per Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones su cui posare i loro magici fronzoli.
A tempo debito, Bonham divenne sinonimo di batteria come Hendrix di chitarra. Un virtuoso in ogni senso della parola, non sorprende quindi che una volta, il signor Hendrix descrisse accuratamente Bonham al frontman degli Zeppelin, Robert Plant, come dettagliato in A Thunder of Drums : "Quel tuo batterista ha un piede destro come un paio di nacchere!”
È una testimonianza dello stile di gioco di Bonham che la sua abilità abile è stata immediatamente percepita da tutti coloro che hanno ascoltato i suoi dischi o lo hanno visto suonare dal vivo, chitarrista o no.
Dato che Bonham è così venerato come batterista, i fan volevano da tempo scavare un po' più a fondo nel modo in cui ha formato il suo suono inconfondibile e scoprire chi lo ha ispirato. Senza ombra di dubbio, una delle influenze più significative su di lui è stata il compositore, bandleader e straordinario batterista jazz Gene Krupa. Il nativo di Chicago era famoso per la sua energia e carismatico spettacolo, e questo ha affascinato un giovane Bonzo, che ha idolatrato il percussionista e la sua tecnica unica.
Notato da suo fratello Michael sul sito web di Bonham, John è stato ampiamente influenzato dal film biografico del 1956 The Benny Goodman Story, in cui Krupa ha interpretato un ruolo da protagonista come il re dello swing. Michael dice che "John è andato a vedere il film con suo padre" e che, in parole povere, per un giovane Bonzo, "Gene Krupa era Dio". Altrove, Bonham ha anche espresso il suo affetto per un altro film di Krupa, Beat The Band, in cui il percussionista suona un set su alcuni tubi del vapore.
È chiaro che Gene Krupa è stato l'uomo che ha creato John Bonham e per questo lo ringraziamo.
https://youtu.be/fyAUKU_ImNg
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LED ZEPPELIN, ROBERT PLANT SPIEGA IL PERCHÉ DELLA SUA CLASSICA POSA SUL PALCO
Robert Plant ha spiegato perché, durante i concerti, tendeva ad allontanare il microfono dal volto realizzando una posa diventata iconica nel mondo del rock
Robert Plant è senza ombra di dubbio uno dei più grandi cantanti nella storia del rock. Per quanto i suoi fan ( e la storia ) lo riconoscano come uno dei frontman più iconici e confident di sempre, Robert Plant aveva le sue insicurezze.
A questo proposito, il frontman dei Led Zeppelin ha spiegato il perché di una delle sue classiche mosse da palco in cui il riccioluto cantante inarcava verso indietro il busto e allontanava il microfono dal volto.
Il perché della posa di Robert Plant
Se il suo gesto è diventato uno dei modi più iconici di stare sul palco, la motivazione della posa di Robert Plant ha solo a che vedere con una questione pratica.
Parlando nel suo podcast Digging Deep, Robert Plant ha spiegato che il gesto di allontanare il microfono dal volto era per la paura di centrare una nota sbagliata: "Lo facevo spesso perché non ero sempre sicuro di riuscire ad azzeccare la nota giusta", ha detto Plant, "Mi allontanavo dal microfono, nel caso non mi venisse bene. Non puoi mai sapere".
Nonostante gli anni di esperienza, ogni tanto Plant dice di assumere ancora quella posa quando canta dal vivo, specialmente durante Immigrant Song, una canzone talmente inadatta per la sua voce da non averla cantata per 23 anni. Per riuscire a gestire bene un brano del genere, spiega Plant, dovrebbe avere una stazza molto più importante.
https://www.radiofreccia.it/notizie/articoli/led-zeppelin-robert-plant-spiega-il-perche-della-sua-classica-posa-sul-palco/
https://youtu.be/RlNhD0oS5pk
Il vecchio sulla copertina di Led Zeppelin IV
Alcune settimane fa, sempre all'interno di Digging Deep, il frontman dei Led Zeppelin aveva scherzato sulla sua età, paragonandosi all'uomo ricurvo sulla copertina di "Led Zeppelin IV".
Uno degli album più importanti nella storia del rock, "Led Zeppelin IV" contiene classici come Stairway To Heaven e Rock'n'Roll e una copertina che mostra un misterioso anziano curvo sotto il peso di un fascio di rami.
Durante l'episodio del podcast, Plant ha raccontato di come Led Zeppelin IV sia nato in un'atmosfera bucolica, nell'isolamento più totale nel cottage di Bron-Yr-Aur, in Galles.
"Questa mossa ci ha restituito un nuovo ottimismo, la voglia di vivere un'esperienza diversa e raggiungere una nuova creatività".
Riflettendo sulla sua età, Plant ha infine scherzato dicendo:"Quando guardo il vecchio con i rami in spalla penso: il tizio sulla copertina oggi sono io!"
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https://www.rockol.it/news-722981/led-zeppelin-page-plant-bonham-john-paul-jones-nome-d-arte-video
L'unico Led Zeppelin che ha usato un nome d'arte
Robert Plant, Jimmy Page, John Bonham e John Paul Jones hanno senza dubbio dato vita a una delle formazioni più iconiche della storia del rock, i Led Zeppelin. Un gruppo che, per rimanere fedele a se stesso fino in fondo, un paio di mesi dopo la morte del batterista John Bonham, avvenuta il 25 settembre 1980, si sciolse per non tornare mai più assieme, salvo un paio di occasioni celebrative. Tra le molte curiosità che riguardano la band inglese, ve ne è una che riguarda l'unico membro del gruppo che aveva un nome d'arte e non quello che figura sul suo documento d'identità.
Dei quattro l'unico che non si è presentato con il suo vero nome è stato il polistrumentista del gruppo John Paul Jones, che nella band suonava principalmente basso e tastiere.
Al pari del chitarrista Jimmy Page, Jones si fece conoscere come valido turnista nella Londra della prima metà degli anni '60. Da adolescente usava ancora il suo vero nome, .John Baldwin, e suonò, tra gli altri, con Jet Harris degli Shadows e con gli Herman's Hermits.
A consigliargli di cambiare il nome fu il suo (e dei Rolling Stones) manager Andrew Loog Oldham. Fu allora che il ragazzo si trasformò da John Baldwin in John Paul Jones. Secondo la storia, raccontata dallo stesso Jones, ma anche da altri, Oldham aveva visto un poster di un film con il comandante della marina statunitense che si chiamava John Paul Jones e gli aveva suggerito di prendere quel nome. Il non ancora membro dei Led Zeppelin seguì il consiglio del suo manager e assunse quindi quel nuovo nome.
Quando si unì ai Led Zeppelin, John Paul Jones si era stancato di lavorare come arrangiatore per alcune band, Rolling Stones compresi. Quindi, nel momento in cui Jimmy Page gli propose di far parte di un nuovo gruppo lui accettò immediatamente di buon grado. Jones di distinse da subito all'interno della band e mostrò il suo talento come musicista e arrangiatore sin dall'album d'esordio dei Led Zeppelin "I", nel 1969. Nel primo disco del gruppo suonò l'organo in "You Shook Me", "I Can't Quit You Baby" e "Your Time Is Gonna Come". Una delle sue migliori performance al basso la fornì invece su "Dazed and Confused".
https://youtu.be/w772GXG5LnE
In "IV" del 1971, l'oggi 76enne musicista londinese portò il suo lavoro a un livello ancora superiore. Oltre a comporre il riff di "Black Dog", suonò cinque strumenti diversi in "Stairway to Heaven". Qualcuno riteneva che John Paul Jones fosse l'arma segreta dei Led Zeppelin, ma se questo fosse un segreto di certo non lo era per i suoi compagni di band e per i musicisti che lo conoscevano bene e sapevano quanto fosse prezioso.
https://youtu.be/6tlSx0jkuLM
https://www.rockol.it/news-722981/led-zeppelin-page-plant-bonham-john-paul-jones-nome-d-arte-video
..continua vari articoli e reportage
https://www.rockol.it/news-722981/led-zeppelin-page-plant-bonham-john-paul-jones-nome-d-arte-video
La canzone dei Led Zeppelin ispirata da Joni Mitchell
La cantautrice canadese è una leggenda ed è ammirata da tutti, Plant e Page compresi
Lo scorso 24 luglio, a sorpresa, Joni Mitchell è tornata ad esibirsi in un concerto completo al Newport Folk Festival dopo oltre 20 anni. La 78enne musicista canadese nel 2015 venne colpita da un brutto aneurisma cerebrale e il suo ritorno su di un palco è stato salutato alla stregua di un bellissimo regalo.
https://youtu.be/NlB2V2X-Z8g
Joni Mitchell è semplicemente un punto di riferimento per quanti vogliano scrivere una canzone. La migliore di tutti per molti. L'ex compagno David Crosby, uno che qualche cosa in proposito la sa, racconta che era frustrante quando, dopo una giornata in cui pensava di avere scritto una buona canzone, Joni gliene presentava tre che erano migliori. La Mitchell ha pubblicato album come "Ladies of the Canyon" (1970), "Blue" (1971) e "Court and Spark" (1974) che sono consegnati alla storia della musica.
Il plauso al suo talento giunge oltre che dal pubblico, che da decenni si commuove all'ascolto delle sue canzoni, anche dai colleghi.
Che siano metallari svedesi come gli Opeth, oppure delle giovani popstar globali quali Harry Styles. Oppure ancora delle leggende come la regina del pop .Madonna che afferma della Mitchell che sia stata il suo primo punto di riferimento negli anni in cui poteva solo sognare di diventare ciò che è poi diventata. “Mi piaceva davvero moltissimo Joni Mitchell. Conoscevo ogni parola di "Court and Spark". Quando ero al liceo la veneravo. "Blue" è fantastico. Devo dire che di tutte le donne che ho sentito, lei ha avuto l'effetto più profondo su di me dal punto di vista lirico".
https://youtu.be/_1Z6I62yvfg
Court and Spark · Joni Mitchell
Tra i più grandi ammiratori di Joni Mitchell vanno annoverati anche i Led Zeppelin . Robert Plant e Jimmy Page, per scrivere la loro folkeggiante "Going to California" – nella tracklist di "IV" – attinsero a piene mani dall'opera di Joni. A dichiararlo sono gli stessi membri della band britannica che presero quale fonte di ispirazione per quel brano "California", canzone uscita su "Blue".
https://youtu.be/nhVfuacsLDw
https://youtu.be/nhVfuacsLDw
Quando scrisse "California" Joni Mitchell viveva in quella fucina artistica che era Laurel Canyon a Los Angeles. Il testo della canzone racconta di un viaggio in Europa, ma col desiderio nel cuore di tornare a casa, in California. Gli Zeppelin in "Going to California", vogliono andare in California per ricominciare da capo. Nella canzone, il fantasma di Joni viene evocato dalla ragazza che il protagonista del brano sta cercando che possiede "amore negli occhi e fiori tra i capelli" e "suona la chitarra, piange e canta". E dopo queste parole, a volte, Robert Plant cantava la parola Joni.
https://youtu.be/Lm39YkGrHp8
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Maggio 1969. Plant e Jones lasciano l'aereo mentre la band arriva a Boston. I capelli lunghi all'epoca erano considerati contro l'establishment e contro la guerra e non erano i benvenuti in molte parti degli Stati Uniti. Dall'aspetto dell'ufficiale militare e degli uomini d'affari nel terminal, è chiaro che consideravano Plant una stranezza. Nei prossimi eventi, questo tipo di atteggiamento risulterebbe in molestie e persino minacce alla vita dei membri della band.
L’asta del microfono come simbolo fallico, l’esposizione del petto villoso, i genitali strizzati in pantaloni di due taglie più stretti. E poi, una voce che trasuda sesso. Per un critico, Robert Plant era l’essenza del “cock rock”.
Testo: Gianpaolo Chiriacò
Oakland, California, 24 giugno 1977, secondo show. C’è una foto dei Led Zeppelin ripresa dal palco dove Robert dà le spalle al pubblico, e la fiumana di gente raccolta per ascoltare la band fa da sfondo alla figura longilinea del cantante.
Questione di postura
Osserviamo la sua postura: le gambe dritte ma non rigide, un piede davanti all’altro; le spalle leggermente retroflesse; la testa, reclinata senza eccedere, permette ai capelli di andare indietro quel tanto che basta per agevolare una fonazione libera ma senza nascondere i riccioli; le braccia stanno vicine al busto, ma lasciano spazio di movimento agli avambracci. Tutto questo consente alle mani di muoversi in maniera lieve ma decisa: la sinistra regge il microfono a 45° rispetto al mento, la destra sorregge il cavo senza soffocarlo, elegantemente stabile, all’altezza del fianco. È una sua postura tipica, graziosa e non necessariamente effeminata, che Robert in genere alterna con un’altra, più spavalda benché non contratta: le mani sui fianchi, il bacino proteso in avanti, le spalle un po’ indietro a compensare.
Ad analizzare in sequenza tutte le foto e i video dei Led Zeppelin dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, lo si trova quasi sempre in una delle possibili variazioni di queste due pose. Il suo corpo sembra spesso sospeso, ma con una ferma intenzione. Poi, ogni tanto, le mani si sollevano, poggiandosi sull’asta del microfono; un gesto solitamente adottato nei brani dal groove più spinto, come Whole Lotta Love o Immigrant Song. C’è la precisione dell’attore, nelle movenze di Robert Plant. Osservando la sua gestualità nei primi anni dei Led Zeppelin, quelli della quadrilogia, dell’apogeo mai più raggiunto secondo i critici, si possono individuare altri tratti ricorrenti.
https://stonemusic.it/54488/le-ambigue-posture-di-robert-plant-il-genio-del-cock-rock/
https://youtu.be/xbhCPt6PZIU
Prendiamo in considerazione la classica Stairway to Heaven dal film-concerto The Song Remains the Same. Nel corso delle frasi le dita si rivolgono verso l’alto, si agitano leggiadre (le braccia sempre vicine al corpo), quasi a esaltare la magia delle parole, del verso cantato. Durante i respiri la testa va un po’ indietro: scioglie il collo (tipico trucco da vocalist…) e muove delicatamente i capelli. Ogni tanto le due unità si incontrano, quando – tra una frase e l’altra – Robert si tira indietro i capelli con una mano, quasi distrattamente, o almeno così pare. Ma ciò che sembra trasudare sicurezza e rilassamento in realtà è frutto di un’applicazione meditata, di un’estrema consapevolezza della teatralità nel live che l’hard rock – il genere che lui stesso ha contribuito a costruire – ha sovranamente imposto. Quel senso di rilassamento distratto è, in altri termini, profondamente, ontologicamente falso.
Viene, invece, da un lavoro quotidiano lungo gli anni, un’attenzione ai dettagli, una cura maniacale della personalità scenica. Basta dare uno sguardo alla biografia del cantante per capire che tutto questo ha una storia. Nato nel Black Country, a una decina di chilometri da Birmingham, Robert era figlio di un ingegnere civile con la passione per la musica. Da ragazzo era un ottimo studente, ma all’interesse per lo studio si affiancava sempre più a quello per la musica. Verso la fine del liceo, quando l’attività dal vivo con i suoi amici si intensificava, la spinta verso la vita on the road divenne inarrestabile. Fu allora che Robert decise che ce l’avrebbe fatta, puntando su quello che gli riusciva meglio: mettere in scena l’ambiguità.
Con la faccia e il timbro di un angelo, pareva un novello Dorian Gray quando mise per la prima volta in repertorio quella The Lemon Song che ritroviamo, dopo molti anni, in “II”. Robert l’aveva provata e riprovata dal vivo prima di inciderla. Era il solo ad avere il coraggio di cantare quei versi espliciti, fra i suoi amici del liceo, con quell’erotismo malizioso, quella spacconeria unita a vezzi, iniziava già allora a trasformarsi in una creatura da palcoscenico.
https://youtu.be/2f6T4DZG9yg
Così, quando arriva alla corte di Jimmy Page, Robert ha già alle spalle anni di gavetta – con qualche piccolo successo e diverse défaillances – durante i quali ha elaborato un suo modo di catturare il pubblico, mostrandosi allo stesso tempo burbero e generoso, come gli aveva insegnato il blues (la prima passione). Dalla psichedelia West Coast (sua seconda passione) attinge invece il gusto per la ripetizione, che spesso adopera fino a farla diventare un elemento chiave del suo stile. Le iterazioni – di parole o di effetti vocali – gli permettono di giocare con le sfumature della voce, in tutte le possibili variazioni.
Il suo repertorio di attacchi è vastissimo: duri (come quell’ “I want you again” in Dazed and Confused nel “Live at the Royal Albert Hall”), rauchi al limite del costretto, e glissati lunghi o brevi, morbidi come nel registro parlato (diventati poi dominanti nelle sue performance con Alison Krauss). A questi si aggiungano urla, richiami, acuti, falsetti ricchi di aria e gola, sospiri, pianti, mugugni, twang pieni di naso, falsetti più limpidi. Non è la pulizia, né tantomeno la precisione a renderlo un grande cantante, ma piuttosto la varietà delle espressioni, e la scioltezza con cui passa da una all’altra delle sue maschere sonore.
https://youtu.be/0dA5Vfl1bbU
Un ottimo esempio della sua versatilità è il blues I Can’t Quit You Baby, che si muove dal tono confidenziale all’urlo straziato. Per anni l’interpretazione di Simon Frith, secondo cui i Led Zeppelin sarebbero stati l’emblema del cock rock (rock del membro in erezione), è stato il modo più diffuso di classificare la musica dei Led Zeppelin. Ma nuove chiavi interpretative, ispirate alle correnti femministe e ai performance studies, ci hanno fatto capire come la comunicazione dei quattro inglesi – e in particolare l’elemento vocale – costituivano anche un canale immediato per stabilire un rapporto con un nuovo modo di essere donna… Cosicché, quel canto sgolato e quella vocalità acuta ma potente diventarono espressione di una liberazione sessuale non solo maschile.
Secondo Susan Fast, era anzi un modo di dare voce anche al pubblico femminile e alle sue istanze. In quest’ottica, forse, possiamo ritornare a guardare sotto una nuova luce la t-shirt indossata da Plant in quella foto da cui siamo partiti. Ci troviamo una scritta: Nurses Do It Better (le infermiere lo fanno meglio). All’apparenza uno slogan sessista, ma a ben guardare è una frase che in fondo ammicca al pubblico femminile di quegli anni, alla scelta controtendenza di vivere una sessualità emancipata, di conquistare il diritto a usare liberamente il proprio corpo. Affermazione che va contestualizzata alla complessità su cui Robert costruisce la sua arte performativa. Cosicché, interpretando se stesso, Plant incarna le istanze e le contraddizioni di un pubblico vasto e diverso.
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https://www.ondamusicale.it/oggi-in-primo-piano/19666-l-aereo-piu-pazzo-del-mondo-led-zeppelin-starship/?fbclid=IwAR33b7doXXnsMM78VN6V2zvtkujHfK914l1cJZl-W-0Qeke0WFS2LHpkg68
L’aereo più pazzo del mondo: Led Zeppelin Starship
Gli anni settanta furono sicuramente i più faraonici dal punto di vista economico per il rock; per le rockstar, se non altro.
Uno degli status symbol e allo stesso tempo metro di giudizio per valutare il successo di un artista o di una band era quale aereo riuscissero noleggiare per spostarsi durante i lunghi tour.
E se ai Lynyrd Skynyrd toccò la tragedia quando il jet noleggiato, dall’equipaggio discutibilmente incline all’alcol, precipitò, la band che in questo particolare ambito si mise più in luce fu quella dei Led Zeppelin.
Era il 1973 quando, dopo essersi esibiti al Kezar Stadium di San Francisco, il piccolo Falcon Jet che la band aveva noleggiato incontrò gravi difficoltà a causa di forti turbolenze, anche a causa della ridotta stazza. I quattro musicisti videro i proverbiali sorci verdi e fu allora che Peter Grant, il manager fac totum della band, decise di ricorrere allo Starship.
Lo Starship era un Boeing 720; anzi, era il primo di quel modello a essere stato costruito nel 1960. Tredici anni dopo venne acquistato dalla Contemporary Entertainment, società facente capo al cantante Bobby Sherman, allora idolo dei teenager. Il velivolo, comprato alla bella cifra di 200mila dollari, era stato pesantemente customizzato: i posti furono ridotti a 42, vennero installati bar, poltrone, sedie girevoli, tavoli e un divano – comodissimo – lungo ben nove metri. Non mancava un organo elettrico e un televisore dotato di impianto di riproduzione di videocassette, una vera primizia allora, così come i nastri porno celati nell’assortimento video. Nella zona posteriore dell’aereo c’era una vera e propria zona lounge: moquette e cuscini su cui stendersi, una camera matrimoniale con doccia e ogni sorta di comodità.
“Lo Starship costava appena 14mila dollari in più del Falcon – ricordò una volta Peter Grant – perché la Boeing voleva farsi pubblicità con quell’operazione”.
E così i Led Zeppelin volarono per il tour americano del 1973 e del 1975 su quella sorta di Air Force One, anche a dimostrazione dell’incredibile successo raggiunto in appena cinque anni di attività.
Richard Cole, road manager degli inglesi, definiva lo Starship una vera cassa di gin volante, a testimonianza della vita che vi si conduceva a bordo: alcol a fiumi, pasti con ogni ben di Dio, esibizioni più o meno goliardiche della band e compagnia femminile ben assortita.
Alcune foto degli Zeppelin accanto ai motori del jet sono entrate a far parte della storia e dell’immaginario del rock, testimonianza di un’epoca di eccessi destinata a esaurirsi presto anche a causa della crisi energetica mediorientale.
Ma il lusso sfrenato e gli eccessi non erano i soli vantaggi di spostarsi per i cieli d’America su un bestione con quattro enormi motori; i piloti non si facevano troppi problemi a far accomodare in cabina di pilotaggio le star del momento. Si racconta che John Bonzo Bonham, il leggendario batterista del gruppo e appassionato di aviazione, abbia pilotato personalmente per quasi tutto un volo tra New York e Los Angeles. I tanti pregi non erano solo quelli così appariscenti, ma anche più pratici. La band si poteva spostare per le enormi distanze americane senza dover ogni volta cambiare hotel, sempre senza rinunciare a ogni sorta di confort.
Lo Starship però non fu solo al servizio dei Led Zeppelin, che pure ne rimasero i fruitori più assidui e celebri; anzi, il primo in assoluto a noleggiarlo fu Alice Cooper che – in modo forse anche un po’ discutibile – si faceva un vanto di consumare quantità industriali di carburante mentre il resto del mondo doveva razionarlo, con le famose domeniche a piedi qui in Italia, per esempio.
I Deep Purple, sempre all’inseguimento dei rivali Zeppelin anche giù dai palchi, se ne servirono per il tour del 1974; l’Allman Brothers Band trovò un’accoglienza a modo suo trionfale a bordo, con la scritta Welcome Allman Brothers composta con una robusta strisciata di cocaina. Altri ancora furono Bob Dylan e la Band, Frank Sinatra e Peter Frampton che, nel 1976, fu l’ultimo a noleggiare il velivolo.
Elton John, altro assiduo fruitore, disgustato dai piatti di alta cucina che gli venivano proposti, fece fare scorta di secchielli di pollo fritto alle hostess durante uno scalo, il celebre Kentucky Fried Chicken.
Ma i tempi d’oro del rock, buoni per certi eccessi, si avviavano al tramonto; e così, lo Starship, provato dai lunghi su e giù per gli sterminati cieli d’America. I motori iniziavano a dare segni preoccupanti e la crisi petrolifera alla lunga ebbe i suoi effetti. Dopo gli ultimi anni all’insegna di vari passaggi di proprietà, lo Starship finì ingloriosamente accantonato all’aeroporto di Luton, fuori Londra, nel 1979, per poi essere smantellato nel 1982.
Era la fine non solo dell’aereo ma di un’epoca irripetibile per la musica rock; non a caso di lì a poco e salvo rare eccezioni, anche per le grandi band degli anni ’70 fu il momento di deporre le armi.
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https://www.rockaroundtheblog.it/eroi-o-copioni-la-storia-del-gruppo-che-ha-cambiato-il-rock-and-roll/
Il volo dello Zeppelin
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