42..DICONO E HANNO DETTO DI..ROBERT PLANT E LED ZEPPELIN.."(interviste varie)
“È stato Plant a portare la bucolica campagna gallese nel processo creativo del gruppo. Letteralmente, Plant ha fornito le piante, le erbe e le radici, per gli incantesimi di Page.
- Randall E. Auxier, in Led Zeppelin e Filosofia , p. 127.
e per non innestare equivoci:
Se si parla di ambiente bucolico, si intenderà sottolineare la tranquillità e serenità di un dato luogo. Un amore bucolico sarà invece caratterizzato dall'ambientazione agreste, ma anche contraddistinto da semplicità, romanticismo e purezza dei sentimenti.
"I chitarristi rock della sua generazione sono probabilmente i più grandi nella storia del rock", ha detto il presidente dell'Atlantic Records Ahmet Ertegun. “ma Jimmy Page è il meno convenzionale, il più personale. ha sviluppato uno stile magico e distintivo”.
Coperta da una coltre di foschia all’orizzonte, durante l’ultimo appuntamento del riuscito “Milano Summer Festival”, l’attesa eclissi lunare non è stata visibile dall’Ippodromo. Tuttavia, il fatto che a chiudere la rassegna sul palco fosse presente una leggenda come Robert Plant, ha regalato comunque esperienze mistiche alla marea di spettatori presenti per questo grande evento.
Anche stavolta, come per la precedente data di Alanis Morissette, oltre che dal caldo e dalle immancabili zanzare, siamo colpiti dalla quantità e varietà del pubblico: ad accogliere Plant ed i suoi “Sensational Space Shifters” troviamo difatti persone di ogni età, tutte frementi a modo loro in trepidante attesa, con un piacevole clima interpersonale in cui persone più mature e adolescenti si trovano a discutere su cosa attendersi da parte di questa leggenda del rock, che nell’agosto 2017 ha di nuovo sorpreso tutti con un lavoro di altissima fattura tecnica e compositiva come “Carry Fire”.
L’apertura del live è affidata a mezz’ora di esibizione “en solo” di Seth Lakeman a partire dalle 20:00, polistrumentista della band (viola, violino, chitarra tenore, ecc…), il cui raffinato e coinvolgente folk rock accende già l’entusiasmo dei presenti, che trovano nei suoi ottimi brani tracce del sound dei recenti lavori dell’ex frontman dei Led Zeppelin.
Dopo aver tributato i doverosi applausi a Seth, che avrà modo di riceverne molti altri anche nel resto della serata, non resta che attendere le 21, quando con perfetta puntualità british, il super impianto del Milano Music Festival interrompe la musica di sottofondo, per iniziare a suonare una intro tribale che annuncia inequivocabilmente il ritorno del Re: fa quindi il suo ingresso la band e subito dopo ecco che arriva Robert Plant in persona, con passo sicuro e aria sorniona.
L’ouverture avviene con un grande classico, “The Lemon Song” da “Led Zeppelin II”, un perfetto esempio del miglior rock blues in cui già scorgiamo quelli che saranno i due leitmotiv della serata: la bravura dei “Sensational Space Shifters”, band affiatata e tecnicamente mostruosa, che gioca meravigliosamente coi classici di ieri ed oggi dando loro energia e vitalità, e ovviamente la presenza scenica di Robert Plant. Il cantante inglese infiamma gli animi con una voce che si è certamente modificata negli anni, abbassandosi lievemente in cambio del mantenimento della capacità di emozionare col suo inconfondibile timbro, ancora sensuale ed appassionato e in grado di “sparare” degli acuti da pelle d’oca, a dispetto dei ormai settant’anni alle porte.
Plant si muove ancora con un buon dinamismo, gioca con l’asta del microfono e si gode l’adorazione del pubblico con la consapevolezza della rockstar matura, che pure mantiene dentro di sé quell’entusiasmo giovanile che la porta ancora a calcare i palchi del mondo intero per diffondere il vangelo del rock e del blues… avendo ancora molto da dire a proposito di musica, anzi, proponendo una setlist apparentemente breve che tuttavia racchiude in sé la storia dei due generi.
Ciò che ci ha difatti colpito è stato il modo in cui artista e band abbiano infiammato la platea proponendo sia i classici degli Zep, sia cover blues/bluegrass, sia soprattutto estratti dagli ultimi lavori solisti dell’artista, senza che venisse mai meno l’entusiasmo dei presenti.
Sarà il grande assolo di chitarra di “Turn it up”, sarà lo spettacolare dobro di “The May Queen” accompagnato dall’incessante battito di mani del pubblico, sarà il british humour di Robert, che si compiace del clima italiano “proprio freddo come quello UK”, ma i minuti passano lieti, apprezzando i virtuosismi della band che allungano considerevolmente la durata dei brani, che cambiano a tratti forma e sound sorprendendo piacevolmente tutti.
Plant, furbescamente, ha costruito una setlist perfetta, ed ecco che, giocando di nuovo con l’asta, attacca con l’inconfondibile “Black Dog”, il cui sound sembra adeguarsi agli standard più attuali senza tuttavia alcuna variazione sull’esito dell’esecuzione: pubblico a dir poco in delirio e jam finale a suon di blues, a ricordare che tutto il rock è nato da lì.
Plant, da sempre accostato a figure cavalleresche per il suo aspetto, nel 2018 sembra davvero un re normanno calato in Italia per una facile conquista: che proponga un altro classico degli Zep come “Going to California” (di cui abbiamo apprezzato la bella intro acustica ed i sussurri del cantante) o una vecchia cover come “Please read the letter” riproposta nella chiave bluegrass già apprezzata nell’album in duo con Alison Krauss, il risultato è il tripudio dei presenti, ai quali sembra di presenziare ad una lectio magistralis sulla storia della musica.
C’è spazio per un esplosivo omaggio al blues con “Gallows Pole”, con tanto di tributo di Plant a quel Leadbelly che ne fu uno dei più eccelsi esecutori, per l’esecuzione della mistica “Carry Fire” in cui il nostro eroe si tramuta in uno sciamano moderno e poi quello che forse è il colpo di grazia per tutti, con quel concentrato di nostalgia e passione intitolato “Babe I’m gonna leave you” che sorprende ed ammutolisce per due buoni minuti il pubblico, che esplode quindi in una standing ovation a cui segue la presentazione di ogni singolo membro del gruppo.
Il set principale si conclude con due brani tradizionali e la band esce, acclamata subito per i bis da parte di un pubblico che ancora non ne ha avuto abbastanza. I brani sono stati solo 11, ma la loro intensità e le dilatazioni dovute alle improvvisazioni strumentali hanno fatto sì che quest’ora e 10 di concerto sia stata un’esperienza totale e soddisfacente, alla quale non rimane che una chiusura in grande stile.
C’è quindi tempo per una dolce e nel contempo appassionata esecuzione di “Rainbow”, dal penultimo “Lullaby… and the Ceasless Roar”, e per un medley finale a base di Led Zeppelin ricco d’improvvisazione, nel quale “Whole lotta Love” la fa da padrona dando il colpo di grazia ad un pubblico in delirio, al quale non resta che dare il doveroso tributo alla band che si presenta per il classico inchino, augurando la buonanotte a tutti.
Si chiude così il concerto di Robert Plant nonché la rassegna “Milano Summer Festival”.
Una doverosa considerazione va fatta sulla manifestazione, molto ben organizzata ed affiancata ad altri eventi milanesi come il TRI.P, l’i-days e i concerti della rassegna “Estate Sforzesca”, che hanno portato nella metropoli lombarda un’ampia serie di artisti della scena nostrana ed internazionale per gli amanti di ogni genere musicale.
Sul cantante inglese cosa dire di più… gli aggettivi per descrivere la performance e la presenza scenica di questa leggenda del rock si sprecano: Plant ha portato con sé umiltà, simpatia, carisma e bravura, conquistando tutti e dando la dimostrazione di essere ancora oggi uno dei migliori frontman di sempre. Impossibile chiedere di più, perciò grazie ancora, Robert, e ti prego continua a portare nel mondo il fuoco sacro del grande rock.
The Lemon Song (Led Zeppelin)
Turn it up
The May Queen
Black Dog (Led Zeppelin)
Going to California (Led Zeppelin)
Please Read the Letter
Gallows Pole (Led Zeppelin – Leadbelly cover)
Carry Fire
Babe, I’m gonna leave you (Led Zeppelin)
Little Maggie (traditional)
Fixin’ to die (traditional blues)
Encore #1 – Rainbow
Encore #2 – Bring it on Home / Whole Lotta Love / Santianna /Whole Lotta Love reprise (medley)
Dazed and confusedL’anno in cui la musica fu stravolta dall’apocalisse bombastica dei Led Zeppelin
Nel 1969 nessuno aveva il suono del gruppo rock britannico. Dopo, tutti hanno cercato di copiarli, ovviamente senza riuscirci. Il loro blues progressivo stupisce tutti: dai teenager con gli ormoni a palla fino ai palati sofisticati. Se lo sentirete a volume adeguato, nelle orecchie risuonerà la sensazione di essere appena passati attraverso una tempesta. Read&Listen
Carlo Massarini..
continua....
Come spesso accade per tutte le cose grandi, comincia tutto in una stanza piccola, un basement a Gerrard Street, nel centro di Londra, il dodici agosto 1968. Sono in quattro, appiccicati uno all’altro perché gli amplificatori occupano quasi tutto il pavimento, ed è la loro prima volta. Il chitarrista si chiama Jimmy Page, ed è sicuramente quello che ha più storia alle spalle, anche se ha solo 25 anni. È stato il terzo chitarrista in sequenza in uno dei gruppi migliori del blues inglese, quegli Yardbirds che hanno ospitato prima Eric Clapton (fuggito per lesa maestà bluesistica quando hanno avuto un hit in classifica) e poi Jeff Beck. Praticamente i tre migliori chitarristi inglesi di tutti i tempi. Quelli, appunto, erano i tempi, amici miei.
Ha mancato di poco lo storico Sanremo del ’68 in cui si sono esibiti con Lucio Dalla e Bobby Solo, ma è colui che, quando il gruppo si è sciolto (cosa quasi nel DNA delle band di quel periodo) ha creato una band, denominata New Yardbirds, per soddisfare gli obblighi contrattuali di un tour in Scandinavia: «Ho sentito Robert Plant suonare nelle Midlands e l’ho invitato a casa mia per mostrargli cosa avevo in mente. Lui mi ha parlato di Bonham e quando siamo andati a sentirlo suonare ho sentito subito una grande affinità. Poi mi ha chiamato John Paul Jones chiedendomi se avessi per caso bisogno di un bassista, e il gruppo era fatto». Come Page, anche Jones viene da un periodo intenso e stressante di sessionman, al basso e tastiere: è la moglie che lo ha spinto a fare quella telefonata, ed è il collante delle straordinarie capacità soliste di chitarra e batteria. Affidata, questa, a John Bonham, le mani più pesanti del rock a venire, amico di scorribande fra balere e discoteche di Plant: «due grossi pesci rumorosi che nuotavano controcorrente, John con la sua incredibile tecnica ed esibizionismo, io col mio continuo, incessante ululato».
Sono i due meno esperti, e sul libro fotografico che ne celebra il 50enario, “Led Zeppelin by Led Zeppelin”, non ne fa mistero: «Che differenza avrebbe fatto una piccola sala prove a Chinatown? Quei due erano esotici, maturi, avevano stile e suonavano da sogno. Perché di questo si era trattato fino ad allora, di un sogno. Funzionavano a un altro livello, con una tale profondità e consapevolezza. Da un crescendo si passava al silenzio assoluto, e poi di nuovo gloriose esplosioni sonore». Dall’altro punto di vista, i due ’esperti’ li scrutano. Jones ricorda che «da bassista volevo vedere come se la cavava il batterista, se è mediocre non vale neanche la pena provarci. Mi sono reso conto subito che era un batterista straordinario e che c’era una grande sintonia». Aiuta il fatto che entrambi amino la black music di quegli anni, Motown e Stax e r’n’b: “ero un grande appassionato di jazz e r’n’b. Spesso la mia parte era complementare alla chitarra, e non c’è niente di meglio di un basso e una chitarra che suonano la stessa cosa”.
Insomma, è amore alla prima prova. Quel nome lì, però, suonava di vecchio. E allora, leggenda vuole, perché non usare quella battuta di Keith Moon, che doveva essere uno dei membri della super band abbozzata e mai quagliata, quella con Beck e Page alle chitarre? «It’ll go down like a lead balloon (affonderà come un pallone di piombo)», al che John Entwhistle (sempre Who, il quarto del supergruppo che non fu) aggiunse «like a lead zeppelin!». Leva una a dal lead, tieni il mitologico dirigibile Zeppelin, simbolo fallico di 200 metri se ce n’è uno, e il nome è cosa fatta. Niente scaramanzia. Tutto XXXL fin dall’inizio.
La descrizione di Plant dei pieni e dei vuoti sonori di quelle prime prove fotografa bene la dinamica che fin dall’inizio caratterizza gli Zeppelin. Loro e il gruppo che parallelamente ha messo in piedi Jeff Beck, con Rod Stewart alla voce, sono gli ultimi in scia di quell’amore per il blues elettrico afro-americano che non solo ha caratterizzato il secondo lustro degli anni 60 inglesi, ma ha letteralmente creato le basi del futuro rock (e derivati). Rispetto ai primi, però, gli Zep sono più focalizzati, hanno un repertorio e una capacità compositiva migliore, tecnica da vendere ma più al servizio del complesso. Non sono l’unione di tre solisti, come i Cream di Clapton, già sul punto del dissolversi, un po’ come l’era della psichedelìa con le sue jam senza fine. Sono davvero il modello della musica che verrà: stracarichi di riff – cioè l’essenza del r’n’r- ma anche in possesso di una vena melodica notevole, musica cazzuta ma senza (troppi, almeno all’inizio) deliri autoindulgenti che travieranno i loro emuli, capacità di improvvisazione, varietà di temi e di ispirazioni – non solo il blues di Chicago, ma anche il folk britannico.
“Led Zeppelin” è un debutto pazzesco sotto tutti i punti vista, uno quei dischi che cambiano il corso della storia: nel 1969, niente e nessuno ha il suono dei Led Zeppelin. Dopo, tutti cercheranno di avere il suono degli Zeppelin, ovviamente senza riuscirci. Perché la chimica fra i quattro – ognuno dei quali ricorda come molto speciale quella prima session di conoscenza reciproca, in cui hanno infilato i jack e acceso gli amplificatori e han cominciato a suonare ’Travelling Riverside Blues’ senza sapere cosa sarebbe venuto fuori – è di quelle che si crea una volta nella vita. Sono giovani e non si guardano indietro, sono istintivamente aperti a tutto quello che può succedere, flessibili e avventurosi. Sono magnificamente in connessione fra di loro: potenti ma precisi, al servizio di una costruzione d’insieme, ognuno non solo superbo tecnicamente – e cresceranno molto nel tempo- ma anche con una grande personalità musicale.
Il risultato è un blues progressivo, non più una copia ma un’evoluzione dell’originale a 12 battute, perfetto per i ragazzi degli anni 70, così diversi dai loro coetanei – o da loro stessi – solo pochi anni prima. Musica per teenagers headbangers con gli ormoni a palla ma anche per palati fini, perché la potenza è nulla senza controllo, e Page in controllo lo è pienamente.
«Jimmy Page, l’architetto sonico dei Led Zeppelin», ha scritto Mark Richardson su Pitchfork nella ennesima recensione postuma, «sentiva il blues in maniera diversa. In primo luogo come un suono, piuttosto che una forma o una tradizione o un prodotto delle personalità: forse è per questo che si sentiva così disinvolto quando ’prendeva in prestito’ dai dischi di blues senza riconoscere i crediti, perché non puoi fare il copyright di un suono. Sicuramente comprendeva l’elemento di induzione della trance attraverso la ripetizione del blues meglio di chiunque altro: blues come rituale di espansione della coscienza».
Gli epigoni avranno vita dura nel confronto, e la deriva verso l’heavy metal sarà inevitabile ma spesso solo per aspiranti, più che alla santità del rock, alla sordità col rock. Gli Zep non sono heavy metal: heavy sì, pesantissimi, ma Plant ha sempre detestato l’insinuazione. Guardando un giorno un poster dei Judas Priest ha detto «se sono responsabile di questo in una qualunque maniera, sono veramente imbarazzato». Per il suono e per il look.
La cosa veramente interessante, e anche un po’ più imbarazzante dei Judas Priest, è l’impatto di questo primo Lp su buona parte della comunità dei critici musicali di allora, Rolling Stone in particolare. La recensione d’epoca lo paragona molto sfavorevolmente (’tristemente reminescente’) a “Truth” del Jeff Beck Group che l’ha preceduto di poco, e aggiunge che Page, «pur competente chitarrista, è un produttore molto limitato e autore di canzoni deboli e senza immaginazione. Se vogliono riempire il vuoto lasciato dai Cream è meglio che si diano da fare e trovino materiale adeguato». In risposta, gli Zeppelin per tutta la carriera non concederanno mai un’intervista alla più importante rivista americana. Non ne avranno bisogno. Ma com’è possibile che abbiano cannato in questa maniera?
Piuttosto incredibile, anche se 50 anni dopo RS, approfittando di uno dei tanti repackaging che i dischi degli Zep hanno avuto negli ultimi 30 anni, ne pubblicherà una che sa di penitenza in piena regola. Difficile capire il perché di questo ostracismo, che durerà non pochi anni. Io il mio impatto da sedicenne con ’Dazed and Confused’ me lo ricordo come fosse ora: in salotto, ascoltando la radio, che certo non suonava come uno stereo, rimasi choccato, pensavo fossero atterrati i marziani e avessero cominciato a fare dischi. Non era il primo disco che ascoltavo, c’erano già stati gli Who e Jimi Hendrix, ma la sensazione era che nessuno avesse mai suonato una musica così potente, fisicamente trascendente, spaced out, apocalittica. Così rock, anche se il termine sarebbe stato certificato dopo l’avvento degli Zep.
Come l’iconica copertina, rielaborazione grafica di George Hardie del Luftschiff Zeppelin Hindenburg #129 che prende fuoco e fa una strage nel 1937 atterrando nel New Jersey dopo una transvolata oceanica, i Led Zeppelin promettono dall’inizio fuoco e fiamme, un’apocalisse bombastica. E lo fanno con la produzione di Page, che è tutt’altro che limitata: è essenziale, attenta a mettere a terra tutta la potenza della band che si riunisce in sala di registrazione nell’ottobre 1968, circa due mesi dopo il loro primo incontro e il tour svedese. Page ha già una bella esperienza in studio, è stato uno dei musicisti più richiesti come turnista di lusso negli anni precedenti, lo trovate (accreditato o meno) in centinaia di brani. È ricco, già a modo suo una star riconosciuta, ma vuole creare qualcosa di nuovo.
In un’intervista a Phil Alexander su Mojo, racconta la visione iniziale: «La mia collezione di dischi era veramente eclettica. Tutti avevano dischi di r’n’r, magari con i dischi blues del catalogo Chess. Ma io avevo musica da sitar, araba ed elettronica. Ero appassionato di musique concrete dove la musica viene tagliata, un equivalente musicale del lavoro di cut up di Burroughs. Mi piaceva anche la musica classica, tradizionale e moderna. Negli Yardbirds avevo cominciato a fare una musica che missasse musiche, tessiture e suoni diversi. Ho continuato in questa direzione coi Led Zeppelin. Cercavo di creare qualcosa che non si fosse mai sentito prima, o comunque non si fosse mai sentito come lo suonavamo noi. È quello che ho cercato di fare fin dai primi accordi di ’Good Times Bad Times’».
Quella doppia pennata di chitarra che arriva a sorpresa da subito e poi continua a ripetersi con la violenza di un martello, il charleston che come un metronomo tiene il tempo, il campanaccio che lo raddoppia e la rullata che introduce la voce di Plant sono l’inizio della leggenda, un riff r’n’b di Jones a tenere insieme le varie stanze della canzone. Nonostante la canzone potrebbe essere un pezzo pop anni 60, c’è una brutalità che non lascia nulla di inespresso. Quando a 1’30” parte un assolo di 20” di cattiveria inaudita si capisce che c’è poco da scherzare.
Qui si fa sul serio, e Page ha l’esperienza per sapere quanto sia importante catturare la energia cruda delle performance, sempre in presa diretta, con poche sovraincisioni. Negli Olympic Studios, ingegnere del suono quel Glyn Johns che lavora con Who e Stones, dispone i microfoni in vari punti della sala. È lo stesso effetto dei dischi di blues della Chess, allora ancora in mono, per avere un suono d’ambiente, in cui la pulizia non è in cima alla lista delle priorità, anche se ogni strumento è scolpito e potente di suo. La batteria di Bonham viene posta su una pedana per amplificarne la potenza, «catturare ogni frequenza proveniente dalla batteria era fondamentale per sentirla respirare mentre veniva suonata». Nel mix, il basso assurge a un volume e a un’importanza da colonna del tempio. Ogni singolo suono o strumento è definito, ognuno aggiunge la sua parte al suono d’insieme, più grande della somma delle sue parti, ed è questo il segreto del trionfo sonoro di “Led Zeppelin” e delle otto produzioni discografiche in studio – tutte firmate da Page – che seguiranno, dal ’79 al ’91.
Il secondo brano dichiara subito che non sarà tutto heavy, che c’è spazio per un lato acustico. ’Baby I’m Gonna Leave You’ è un brano anni 50 della folksinger americana Anne Bredon, ed è il primo brano che Page fa sentire a Plant, già tutte le parti di chitarra in testa, quando viene a trovarlo sulla sua nuova casa sul fiume a Pangbourne, fuori Londra. Lo sentono dall’album “In Concert” di Joan Baez, che riprendendola l’ha firmata ’traditional, arrangement Joan Baez’ senza citare l’autrice, e così anche Page se ne intesta l’arrangiamento. Non è l’unica dimenticanza riguardo ai crediti dell’album (dal ’91 dopo una causa sarà co-intestata), ma almeno l’arrangiamento qui c’è, perché quella che è una ballata a un certo punto si ferma e diventa heavy, una tempesta di basso e batteria, la voce di Plant alta e sofferta, poi ritorna acustica e poi ritorna dura e poi di nuovo acustica e poi di nuovo come un tuono, la battuta sul quarto quarto fenomenale, memorabile come quella di ’Gimme Some Lovin’. Sul finale, la chitarra filtrata attraverso un altoparlante Leslie cede di nuovo il passo alla melodia folk, un’alternanza che è la sintesi di due anime, una scelta di dinamica estrema che sarà sempre una delle matrici del gruppo (si pensi alla ’Stairway To Heaven’ che è ancora lontana).
Terzo brano, altra influenza in primo piano: ’You Shook Me’ è il migliore dei due brani presenti del principale autore blues degli anni 60 (oltrechè contrabbassista in house della Chess Records) Willie Dixon, scritto sette anni prima per Muddy Waters. È la radice primaria della musica degli Zeppelin, e se cercate un esempio di come i quattro hanno trasformato il blues afroamericano, questo è quello giusto. La chitarra di Page acida e durissima con una spruzzata di psichedelìa, la voce di Plant altissima, feroce, il basso e la batteria così heavy che ogni battuta sembra il passo di un gigante che fa tremare il suolo dove cammina: «Non è facile essere così funky con un brano lento, ma John c’è riuscito». Jeff Beck l’ha proposto per primo in “Truth”, accusando l’ex compagno di avergli rubato l’idea. Il confronto è utile per capire le differenze di approccio, quello degli Zeppelin oggettivamente più riuscito.
Attaccato, senza pause, arriva ’Dazed and Confused’, musica così solida e allo stesso tempo così liquida in certi passaggi, una sorta di jam improvvisata durante la quale – artificio già messo in pratica con gli Yardbirds- Jimmy Page imbraccia l’archetto del violino e suona la sua elettrica con effetto che di volta in volta è melodico, dronico, irreale, spaziale, marziano. La carica dei quattro dell’apocalisse poi parte di colpo e si fa orgia elettrica, un fiume in piena che trascina via tutto, tonalità sempre più alte, finchè le rullatone di Bonham riportano tutto alla base, per un attimo torna il blues primordiale in mezzo a un vortice di effetti, volume che si impenna e poi si placa. Sempre Page: «per certi versi, è disturbante da ascoltare. Ma era voluto. Non voleva essere educata. Voleva creare un disturbo nella tua mente». Anche ’Dazed and Confused’, firmata sul disco da Page, è in origine una folk song, questa di Jack Holmes, cantautore americano che ha suonato, guarda caso, come apertura in un concerto degli Yardbirds a New York. Rimarrà sempre uno dei brani centrali degli Zeppelin dal vivo, improvvisata e strecciata a volte fino alla mezz’ora.
Una intro classicheggiante all’organoda partedi Jones apre la seconda facciata, chitarra acustica e melodia, e alla fine delle strofe una sorta di gospel, minaccioso però: ’Your Time Is Gonna Come’, la ritmica che scandisce e la pedal steel guitar che innalza. Lo strumentale ’Black Mountain Side’, basato sull’arrangiamento del traditional ’Black Water Side’ di uno dei maestri del folk britannico Bert Jansh, doppia chitarra acustica sovraincisa e tabla di Viram Jasani, è un assaggio ulteriore di quel lato acustico, più celtico che country, che sarà sempre presente nei loro album, una vetrina per i virtuosismi di fingerpicking di Page.
’Communication Breakdown’ è il rock veloce dell’album, la voce di Plant che sale sopra la chitarra di Page già alta di suo: come nelle improvvisazioni vocali, come nei blues tirati per il collo e in ogni direzione, la voce di Plant è assolutamente fondamentale per il suono nell’insieme. «Uno strumento a sé stante», dice Page sempre su Mojo, «non volevamo un crooner che cantasse sopra quello che stavamo suonando. Volevamo qualcuno che suonasse totalmente disinibito. Primordiale! Era chiaro fosse un ginnasta vocale, e sapesse anche improvvisare. E anche questo era super importante per me. Volevo uno che improvvisasse e che si mangiasse le canzoni».
Il secondo blues di Dixon, ’I Can’t Quit You baby’ (l’originale nel repertorio del grande Otis Rush) porta all’ultimo brano dell’album, ’How Many More Times’, e sono 8’30” di tour de force da mozzare il fiato. Una chitarra wah wah filtrata apre, e poi arriva tutto il resto dell’artiglieria, il riff di base con un incedere da battaglia campale e i break di chitarra che arrivano fino in cielo mentre Bonham sotto rulla come non ci fosse un domani. Dentro c’è di tutto, dalle citazioni blues di ’How Many More Times’ di Howlin’ Wolf al Bolero di Ravel, finchè si scivola in un’improvvisazione quasi ambient, un drumming leggero che fa da appoggio per la parte solista di Plant. Canta, si lamenta, urla e strepita istrionicamente mentre il suono alle spalle cresce, cresce ancora e alla fine si trasforma in una sorta di heavy hip-hop antelitteram, un controtempo tostissimo che sfocia in ’The Hunter’ di Albert King (scritta da Booker T. & the MG’s, la stratosferica studio band della Stax). Poi riparte daccapo il riff iniziale, sempre più torrenziale, e si chiude nel delirio sonico con un ultimo sbreng!.
Se l’avete sentito a volume, diciamo, adeguato, il silenzio cala come un vuoto, le orecchie che risuonano e la sensazione di essere appena passati attraverso una tempesta. Tipo quando in autostrada incocci un diluvio che di colpo finisce e c’è il sole, e ti chiedi «whew, che è successo?».
Questo è l’effetto che più di 50 anni dopo ancora porta con sè il debutto degli Zeppelin. Immaginatevi allora, con l’effetto-prima-volta. Stordente, e così sarà il format per tutta la loro corsa. «Pensavo, prima ancora di avere il gruppo, che se un album fosse stato realizzato con abbastanza contrasto, con abbastanza drammaticità, quello che chiamiamo luce e ombra, e poi le parti vocali, e la chitarra suonata in modo superheavy, sarebbe stato incredibile. È ciò che abbiamo tentato di fare».
Vera mente di tutta l’operazione, Jimmy Page paga con i suoi soldi la produzione, duemila sterline per 30 ore di studio in nove giorni missaggio incluso, e con il gigantesco (e cattivissimo) manager Peter Grant contatta a New York la Atlantic di Ahmet Ertegun e Jerry Wexler: «Ci siamo presentati con il disco già finito, e quindi potevamo imporre le nostre condizioni. Era un affare da prendere così o lasciare. Hanno capito che era musica radicale, non avevano mai sentito nulla del genere».
Firmano subito, obiettivo il mercato degli album, nei patti anche nessun singolo (ma il patto verrà sospeso per ’Whole Lotta Love’), e pieno appoggio. Nessuna apparizione televisiva, centinaia di interviste solo alle radio FM underground americane: «a volte anche in un tenda nel mezzo del nulla, ma solo con gente che capiva e amava quello che facevamo». Lentamente, per passaparola ed entusiasmo crescente, gli Zeppelin passano dal Marquee a Londra ai due Fillmore, East and West a NYC e San Francisco, e presto arriveranno i tutti esauriti negli stadi.
In un solo anno, “Led Zeppelin II” uscirà sei mesi dopo, scrivono la loro storia di how the west was won.
------------------
INCONTRI PREDESTINATI
Come ha ricordato Plant del loro primo incontro: “Stavo comparendo in questo college quando [il manager Peter Grant] e Jimmy si sono presentati e mi hanno chiesto se volevo unirmi agli Yardbirds. Sapevo che gli Yardbirds avevano lavorato molto in America, il che per me significava un pubblico che avrebbe voluto sapere cosa avrei potuto offrire, quindi naturalmente ero molto interessato".
Plant ha cantato la canzone dei Jefferson Airplane "Somebody To Love" a Page. Page in seguito ha ricordato il momento: "Quando gli ho fatto il provino e l'ho sentito cantare, ho subito pensato che ci doveva essere qualcosa di sbagliato in lui dal punto di vista della personalità o che doveva essere impossibile lavorare con lui, perché non riuscivo proprio a capire perché, dopo che lui mi ha detto che cantava già da qualche anno, non era ancora diventato un grande nome. Quindi l'ho tenuto a casa mia per un po', solo per controllarlo, e ci siamo trovati benissimo. Nessun problema."
La prima scelta di Page per il ruolo di cantante era Terry Reid.
Tuttavia, Reid rifiutò l'offerta e suggerì al suo posto Robert Plant. Detto per inciso Reid rifiutò anche l'offerta di Ritchie Blackmore di diventare il cantante dei Deep Purple. Plant accettò il posto e raccomandò John Bonham come batterista. Ai tre si unì poi il bassista John Paul Jones e così si formarono i New Yardbirds, poi trasformatisi nei Led Zeppelin.
Secondo il cantante dei Free e dei Bad Company Paul Rodgers, Robert Plant lo contattò prima di unirsi ai Led Zeppelin per chiedergli la sua opinione. Nel 2018 Rodgers parlando al programma radiofonico Ultimate Classic Rock Nights disse di avere incontrato Plant a Birmingham quando suonava con i Free e Alexis Korner, aggiungendo che in quel momento Plant aveva tutte le carte in regola per diventare un membro dei Led Zeppelin dato l'aspetto e il talento.
Rodgers ha ricordato che Plant andò al loro hotel per bere una tazza di tè prima di unirsi ai Led Zeppelin. Durante la loro conversazione, Plant parlò a Rodgers dell'incontro con Jimmy Page e gli chiese se avesse mai sentito parlare di lui. Plant rivelò che gli offrirono un lavoro per suonare in una band a 30 sterline alla settimana, che equivalgono a 520 sterline alla settimana nel 2018. A dire di Paul Rodgers Plant gli disse che avrebbe accettato l'accordo. Questo il racconto di Rodgers: “Ho incontrato Robert a Birmingham quando ero con i Free e abbiamo suonato con Alexis Korner. Robert si alzò per suonare con Alexis, questo era prima dei Led Zeppelin, e lui c'era tutto. Intendo dire i capelli, l'aspetto, tutto. Tutto ciò di cui aveva bisogno era una band, i Led Zeppelin. È tornato al nostro hotel per una tazza di tè e disse, "Oh, ho incontrato questo chitarrista a Londra che si chiama Jimmy Page. Hai sentito parlare di lui?' Gli ho detto, 'Sì, molte persone parlano di lui. È un grande session man giù a Londra.' Disse, 'Mi hanno offerto un lavoro. Vogliono mettere insieme una band. Mi hanno offerto 30 sterline a settimana oppure una percentuale. Cosa ne pensi?' Io risposi, 'Beh, sai cosa farei? Prenderei la percentuale.'”
La voce del leader dei Led Zeppelin ha lasciato a bocca aperta ogni suo ascoltatore e non solo durante il suo percorso con la band. Eccone un esempio.
Lo storico frontman dei Led Zeppelin ha di certo una di quelle voci difficili se non impossibili da dimenticare. Durante la sua carriera molti si sono chiesti – senza mai riuscire a darsi una risposta – come riuscisse a toccare note così alte mantenendo l'intonazione.
Dev'essere stato questo il caso di Jimmy Page, chitarrista e futuro collega di Plant, durante il suo primo incontro con l'artista: in quel momento, infatti, Page stava cercando un nuovo cantante per la sua neonata band ed era stato indirizzato proprio verso Plant, il cui nome all'epoca non era ancora così conosciuto. Dopo averlo sentito cantare una cover di Somebody To Love dei Jefferson Airplane, Page rimase estasiato e commentò così la performance del collega:
Quando l'ho ascoltato durante l'audizione ho pensato subito che dovesse esserci qualcosa che non andasse nella sua personalità oppure che fosse una persona con la quale non si poteva lavorare in armonia perché proprio non capivo come, avendo iniziato a cantare già da diversi anni, potesse non essere ancora diventato famoso.
Insomma, non è sbagliato dire che Plant lasciò letteralmente Page a bocca aperta, e non solo lui: conosciamo tutti il grande successo di pubblico che il vocalist ebbe come frontman di uno dei gruppi più innovatori della storia del rock. E come solista? Plant non fu da meno. Prendiamo in esame, per esempio, il suo primissimo disco senza i compagni, PICTURES AT ELEVEN.
Era il dicembre del 1980 quando i Led Zeppelin conclusero il loro periodo di attività come band (salvo poi riunirsi in diverse occasioni - ve ne abbiamo parlato qua). A quel punto, anche la sicurezza di un leader carismatico come Plant non poté che vacillare. Il cantante pensò, infatti, di lasciare definitivamente la strada dell'industria musicale per intraprendere una nuova carriera come insegnante ed era davvero a un passo dal convincersi di questa idea quando scelse di fare un tentativo e di pubblicare il suo primo disco come solista.
Siamo nel giugno del 1982. Robert Plant fece il suo debutto con il sopracitato PICTURES AT ELEVEN accompagnato anche da Phil Collins dei Genesis, e dall'ex membro dei Rainbow Cozy Powell.
L'impronta dei Led Zeppelin si ritrova nell'etichetta discografica scelta per la distribuzione di questo primo album di Plant: la Swan Song, progetto nato proprio da un'idea della band britannica nel 1974. Fu il primo e ultimo album pubblicato da Plant in collaborazione con la Swan Song dato che di lì a poco l'etichetta avrebbe chiuso i battenti.
Una curiosità interessante sull'album riguarda il titolo: si tratta di una frase che si sentiva molto spesso durante i telegiornali statunitensi di quel periodo e che, pronunciata dal presentatore dopo un breve riassunto di una notizia di interesse pubblico, stava a indicare che quella stessa notizia sarebbe stata approfondita nell'edizione delle undici del tg. Decisamente un titolo curioso.
PICTURES AT ELEVEN fu per Plant il trampolino di lancio che, pur senza troppe pretese, fece spiccare il volo alla sua carriera come solista. A questo primo lavoro, infatti, ne seguirono molti altri ai quali il cantante è riuscito sempre a dare uno speciale tocco personale grazie alla sua splendida voce.
Led Zeppelin I - Usciti in questo giorno, 12 gennaio 1969
“... le vere innovazioni di quel primo album sono state le tecniche di produzione avanzate che [Jimmy] Page è stato in grado di mettere in atto e il puro peso della musicalità che aveva assemblato per eseguirli. Essere in grado di produrre tale potenza e coesione da una formazione che aveva appena un mese al momento della registrazione dell'album è stato estremamente impressionante; per catturare quell'energia registrata, tuttavia, a dir poco sorprendente; il suo talento precedentemente sconosciuto come produttore mette in ombra anche la sua destrezza come chitarrista…” - Mick Wall
Led Zeppelin I - Released on this day, January 12, 1969
“…the real innovations of that first album were in the advanced production techniques [Jimmy] Page was able to bring to bear and the sheer weight of musicianship he had assembled to execute them. Being able to produce such power and cohesiveness from a line-up that was barely a month old at the time the album was recorded was extremely impressive; to capture that energy on record, however, little short of astonishing; his previously unknown talent as a producer overshadowing even his dexterity as a guitar player…” - Mick Wall
"Un'altra testimonianza della passione e del talento dei Led Zeppelin per l'improvvisazione: non importa quanto sia lunga o breve una canzone, possono cambiarla in un batter d'occhio perché la loro profondità musicale è così sbalorditiva."
–J J Jackson, J J Jackson Remembers Led Zeppelin
“Another testament to Led Zeppelin’s passion and talent for improvising: no matter how long or short a song is, they can change it around in a heartbeat because their musical depth is so staggering.”
–J J Jackson, J J Jackson Remembers Led Zeppelin
J J Jackson was in the enviable position of having seen all 4 of Zeppelin’s January 1969 shows at the Boston Tea Party. They were originally scheduled for 3 nights, but a fourth was added due to the demand.
JJ Jackson era nella posizione invidiabile di aver visto tutti e 4 gli spettacoli degli Zeppelin del gennaio 1969 al Boston Tea Party. Inizialmente erano programmate per 3 notti, ma una quarta è stata aggiunta a causa di molteplice richiesta
" "John Bonham was and remains an authentic model from which to draw inspiration for almost every contemporary musician and he made Led Zeppelin at the time of his death the choice to stop, because simply:" We can no longer be as we were “." ""
John Bonham degli Zeppelin è considerato un vero pioniere tra i batteristi rock
Avvia un dibattito sui "Migliori batteristi rock di sempre" e avrai conversazioni su alcune delle più grandi personalità della musica. Questo perché non puoi affrontare l'argomento senza menzionare Keith Moon (1946-1978) degli Who e John Bonham (1948-80) dei Led Zeppelin .
Ai loro tempi, "Bonzo" e "Moon the Loon" illuminavano le arene con i loro tamburi e poi chiudevano la notte terrorizzando gli occupanti degli hotel in cui alloggiavano. E poi avrebbero fatto lo stesso la notte successiva (e innumerevoli altre volte in quel tour).
Ma il lavoro che hanno lasciato sui dischi degli Who e degli Zeppelin garantisce loro un posto sul Monte Rushmore dei batteristi. E mentre scolpisci quella montagna avrai bisogno di uno schizzo di Ginger Baker (1939-2019), il focoso batterista dei Cream e di varie band che ha guidato sotto il suo stesso nome.
Per un batterista come Bonham, che raggiunse la maggiore età all'inizio degli anni '60, Baker era quello da tenere d'occhio (e da cui imparare). "Penso che nessuno possa mai mettere giù Ginger Baker", ha detto Bonham in un'intervista pubblicata sui Led Zeppelin in Their Own Words . Ha davvero ammirato il modo in cui Baker ha avuto un ruolo da protagonista in gruppi rock.
Per Bonzo,Baker è stato il primo batterista rock a interpretare un ruolo da protagonista
Quando pensi ai batteristi che hanno elevato lo status del kit e sono diventati delle star nelle band (e persino nei bandleader), Gene Krupa è spesso la scelta di consenso. Lo spettacolo di Krupa e la mentalità da protagonista hanno ispirato generazioni di batteristi (incluso Moon).
Ma in termini di batteristi rock Bonham pensava che Baker fosse l'equivalente. "La gente non aveva prestato molta attenzione alla batteria prima dei Krupa", ha detto Bonham in In Their Own Words . "E Ginger Baker era responsabile della stessa cosa nel rock." Per Bonham, si trattava dell'approccio generale di Baker.
[Baker] è stato il primo a uscire allo scoperto con questo 'nuovo' atteggiamento: che un batterista potesse essere un musicista in avanti in una rock band, e non qualcosa che era bloccato in background e dimenticato", ha detto Bonham. E ha ammirato il modo in cui Baker ha mostrato le sue influenze uniche.
"Penso che Baker fosse davvero più interessato al jazz che al rock", ha detto Bonham. “Suona con un'influenza jazz. Fa sempre le cose in 5/4 e 3/4. […] La cosa di Ginger come batterista è che è sempre stato se stesso".
Sebbene Baker avesse suonato in band prima dei Cream, la sua corsa con Eric Clapton e Jack Bruce nel loro power trio dal 1966 al 1968 lo ha reso famoso in tutto il mondo. E brani come "Toad", che comprendeva un lungo assolo di batteria, eliminarono ogni dubbio sulla posizione di Baker nella band. (Bonham ha fatto una dichiarazione simile con "Moby Dick" sui Led Zeppelin II .)
Dopo i Cream, Baker ha suonato con i Blind Faith (un'altra band con Clapton) e poi ha formato i Ginger Baker's Air Force. Negli anni '70 ha aperto uno studio di registrazione in Nigeria e ha collaborato con il pioniere dell'afrobeat Fela Kuti. Chiaramente, a Baker non piaceva stare fermo a lungo.
Ma tra tutte quelle collaborazioni Bonham preferiva i suoi primi lavori. "Ho pensato che fosse fantastico con la Graham Bond Organization [1963-66]", ha detto Bonham. "È un peccato che il pubblico americano non abbia visto quella band perché era davvero un gruppo fantastico: Ginger Baker, Jack Bruce e Graham Bond".
John Bonham of Zeppelin is considered a true pioneer among rock drummers
Start a debate on "Best Rock Drummers Ever" and you will have conversations about some of the greatest personalities in music. This is because you can't tackle the subject without mentioning Keith Moon (1946-1978) of the Who and John Bonham (1948-80) of Led Zeppelin.
In their day, "Bonzo" and "Moon the Loon" lit arenas with their drums and then closed the night terrorizing the occupants of the hotels they were staying in. And then they would do the same the next night (and countless other times on that tour).
But the work they left behind on the Who and Zeppelin records guarantees them a place on Mount Rushmore for drummers. And as you sculpt that mountain you'll need a sketch of Ginger Baker (1939-2019), the fiery drummer of Cream and various bands who led under his own name.
For a drummer like Bonham, who came of age in the early 1960s, Baker was the one to watch (and learn from). "I think no one can ever put Ginger Baker down," Bonham said in an interview published on Led Zeppelin in Their Own Words. He really admired the way Baker had a starring role in rock bands.
For Bonzo, Baker was the first rock drummer to play a starring role
When you think of drummers who elevated kit status and became stars in bands (and even bandleaders), Gene Krupa is often the consensus choice. Krupa's show and lead mentality have inspired generations of drummers (including Moon).
But in terms of rock drummers Bonham thought Baker was the equivalent. "People hadn't paid much attention to drums before Krupa," Bonham said in In Their Own Words. "And Ginger Baker was responsible for the same thing in rock." For Bonham, it was Baker's general approach.
[Baker] was the first to come out with this 'new' attitude: that a drummer could be a forward musician in a rock band, and not something that was stuck in the background and forgotten, "Bonham said. admired the way Baker displayed his unique influences.
"I think Baker was really more interested in jazz than rock," Bonham said. “He plays with a jazz influence. He always does things in 5/4 and 3/4. […] The thing about Ginger as a drummer is that he's always been himself. "
Although Baker had played in bands before Cream, his run with Eric Clapton and Jack Bruce in their power trio from 1966 to 1968 made him famous around the world. And songs like "Toad", which included a long drum solo, eliminated any doubts about Baker's position in the band. (Bonham made a similar statement with "Moby Dick" on Led Zeppelin II.)
After Cream, Baker played with Blind Faith (another band with Clapton) and then formed Ginger Baker's Air Force. In the 1970s he opened a recording studio in Nigeria and collaborated with Afrobeat pioneer Fela Kuti. Clearly, Baker didn't like sitting still for long.
But of all those collaborations Bonham preferred his early works. "I thought he was great with the Graham Bond Organization [1963-66]," Bonham said. "It's a shame that the American public didn't see that band because it was such a fantastic group: Ginger Baker, Jack Bruce and Graham Bond."
John Bonham ha suonato con 2 bacchette per mano in "Four Sticks"
Ripensando ai suoi giorni con Bonham, il genio dello Zep Jimmy Page ha ricordato come la band avesse bisogno di adattarsi al suo sound. "Oltre ad essere uno dei migliori batteristi che abbia mai sentito, John Bonham era anche il più rumoroso", ha detto Page (tramite Whole Lotta Led ). "È stato lui il motivo per cui abbiamo iniziato ad acquistare amplificatori più grandi."
L'abilità fisica di Bonham si estendeva oltre la parte superiore del corpo. Il pubblico ha sentito la potenza del piede di Bonham nel suo lavoro con la batteria in " Good Times Bad Times " nella dichiarazione di apertura di Zep del 1969. Continua a sorprendere le persone che abbia suonato quella parte usando una grancassa.
In Led Zeppelin IV (1971), Bonham ha mostrato un altro aspetto della sua superiorità fisica alla batteria. Durante la registrazione di "Four Sticks", ha suonato con due bacchette in ciascuna mano. Secondo Page, è stata un'esperienza straziante.
John Bonham ha suonato con 2 bacchette per mano in "Four Sticks"
Bonham ha inventato alcuni ritmi complicati per le canzoni dei Led Zeppelin nel corso degli anni. ("The Crunge" e "Fool in the Rain" sono due esempi.) E dopo che la band ha lottato per ottenere una base soddisfacente per "Four Sticks", Bonham ha trovato una soluzione: ha suonato con due bastoncini in ogni mano.
Per i fan di Zep che si chiedono perché una canzone con testi come "Sai che devo scappare da te, piccola" avesse il titolo "Four Sticks", questa è la risposta. Ma per un batterista è stata un'esperienza dolorosa, anche per uno come Bonham. Page ha ricordato il giorno in cui Bonham è arrivato alla soluzione.
"L'abbiamo provato un paio di volte e non si è staccato fino al giorno in cui Bonzo ha bevuto una birra Double Diamond, ha preso due set di bastoncini e l'ha provata", ha detto Page in un'intervista citata in Led Zeppelin: All The Songs . "Era magico."
Con "magia", Page si riferiva alla performance di Bonham, che lui ei suoi ingegneri registrarono quel giorno. Ma hanno dovuto sfruttare al meglio le riprese limitate. Il batterista è riuscito a fare solo due tentativi prima di doversi fermare con "Four Sticks".
Bonham ha dovuto fermarsi dopo 2 riprese a causa del dolore
L'approccio "live" dei Led Zeppelin in studio ha portato ad alcune magnifiche registrazioni nel corso degli anni. “In My Time of Dying”, registrato in uno o due take (cioè prima delle sovraincisioni di chitarra di Page), offre un brillante esempio del funzionamento della tecnica.
Ma nel caso di "Four Sticks" si trattava della natura estenuante di Bonham che giocava con due bastoncini in ciascuna mano. "Sono state due riprese", ha detto Page della registrazione (tramite All the Songs ). "Questo perché era fisicamente impossibile per lui farne un altro".
Due riprese si sono rivelate tutto ciò di cui Zep aveva bisogno. Usando la magistrale base musicale, Page ha guidato il suo esercito di chitarre in battaglia su "Four Sticks". Come forse il brano meno celebrato dei Led Zeppelin IV , la canzone ricorda quanto in alto lo Zep sia salito in alto nel suo capolavoro del 1971.
John Bonham aveva uno stile ed un approccio innovativo alla batteria pressoché unico. Essendo cresciuto strumentalmente come autodidatta, la sua tecnica musicale era incisiva ed assolutamente personale, aderendo perfettamente a quella che era la sua inclinazione temperamentale selvaggia ma determinata. Nonostante ciò, studiò a fondo l’ambito teorico dello strumento trasformando come mai nessuno prima di lui, il batterista ad un potenziale elemento solista di spicco del gruppo e non solamente ad un ruolo di accompagnatore ritmico. I suoi grooves avveniristici sono ispirazione per migliaia di musicisti fino ai giorni d’oggi.
L’importanza di John Bonham per i Led Zeppelin e per il genere
All’inizio della carriera Bonham era solito persino rompere le pelli della batteria per ottenere uno specifico suono. Quando capì che foderando l’interno dei suoi tamburi riusciva ad ottenere maggiore risonanza avvenne una svolta decisiva per il suo stile e per il genere. Infine arrivò a trovare un ‘sua’ accordatura delle pelli ed una pendenza nel colpirle talmente accurata da far sembrare un suono di ordinaria intensità, un colpo dalla potenza “monumentale”, come amava definire lui stesso il suo suono. Bonham aveva la capacità di oscillare da un sound potente ed aggressivo come in Dazed and Confused, Rock and Roll, Immigrant Song, Black Dog; ad un tocco melodico e raffinato come in Since I’ve Been Loving You.
Il groove di Fool In The Rain è oggetto di studio dai musicisti che sono venuti dopo di lui per l’espressione sonora che lo contraddistingue. E il leggendario assolo di batteria di Moby Dick è ormai diventato una sezione strumentale culto dei Led Zeppelin, intoccabile dalla scaletta ed atteso dai fans come una sorta di rito liturgico per la teatralità, l’armonia e la timbrica difficili da riscontrare in altri artisti della batteria. La creatività e la furia durante le improvvisazioni che hanno portato John a suonare anche con le mani quando perdeva le bacchette hanno stravolto il modo di concepire l’uso dello strumento; creando uno stile più fisico nel percuotere e incentrando sul timbro del colpo e del sound nell’insieme più che sulla stretta tecnica di base, il fulcro della cifra artistica.
Ciò ha reso John Bonham un autentico modello da cui trarre ispirazione per quasi ogni musicista contemporaneo e ha fatto si che i Led Zeppelin presero all’epoca della sua morte la scelta di smettere, perché semplicemente: “Non possiamo più essere come eravamo“.
“♫ Quando il fiume scorre asciutto piccola come ti senti? ♫”
Puoi capire perché i Led Zeppelin suonavano raramente “Four Sticks” in concerto; una delle canzoni che quasi non ce l'hanno fatta su Zeppelin's IV a causa dei problemi che la band stava avendo a farcela in studio. Gli Zeppelin hanno quasi rinunciato a "Four Sticks", che secondo Mick Wall, era " basato sull'idea di Page di creare una canzone basata su riff basata su un raga simile alla trance, fluttuante tra cinque e sei battute, la band semplicemente potrebbe inchiodare . ”
John Paul Jones ricorda quanta difficoltà ha avuto la band nell'ottenere "Four Sticks" proprio come ha spiegato a Chris Welch e Geoff Nicholls in John Bonham: A Thunder of Drums , " E gli ci sono voluti anni per ottenere "Four Sticks". Mi sembrava di essere l'unico che poteva davvero contare le cose. Page suonava qualcosa e [John] diceva: 'È fantastico. Dov'è il primo battito? Lo sai, ma devi dircelo...' In realtà non riusciva a contare cosa stava suonando. Sarebbe un'ottima frase, ma non potresti metterla in relazione con un conteggio. Se pensi che "uno" sia nel posto sbagliato, sei completamente fregato.E se gli Zeppelin avessero rinunciato a "Four Sticks?" Se Jimmy Page, Robert Plant, John Bonham e John Paul Jones non avessero finito "Four Sticks", anche "Rock & Roll" sarebbe rimasto incompiuto. "Four Sticks" ha mostrato come gli Zeppelin fossero più di un semplice Page e Plant, John Bonham è spesso trascurato con il merito di aver tirato fuori il suono eterno che amiamo così tanto che Zeppelin ha creato in studio.
“ Ricordo che 'four stick' era ovviamente in 5/4 ma non riuscivo a capire dove fosse il primo battito e lui non poteva dircelo. Ma in qualche modo ce l'abbiamo fatta tutti e ci siamo ingannati a vicenda. Paul Jones ha detto nel libro di Welch e Nicholls. Anche se John credeva che gli Zeppelin non avessero mai provato "Stick" dal vivo, esiste una registrazione da Copenaghen che credo prevalga sulla versione finale in studio registrata perLed Zeppelin IV . In realtà preferisco questa registrazione low-fi al mix LP. La batteria di Bonham è fuori dal mondo e suona come se fosse una locomotiva posseduta che batte furiosamente i binari.
https://youtu.be/bv5KSPgDX1w
Jimmy Page ha raccontato a Mick Wall nel suo libro When Giants Walked The Earth , come "Four Sticks" ha preso il nome quando il chitarrista degli Zeppelin ha spiegato: "WAbbiamo provato il numero e [Bonham] lo aveva suonato in modo regolare. Ma l'avremmo tagliato di nuovo [e] abbiamo riprovato. [Bonzo] era stato a vedere la Ginger Baker's Airforce ed è entrato ed era davvero entusiasta. Gli piaceva Ginger Baker ma era tipo "Glielo farò vedere!" Ed è entrato e ha preso i quattro bastoncini e basta, ne abbiamo appena fatti due riprese. perché questo è tutto ciò che potremmo in qualche modo gestire. Ma è sbalorditivo quello che sta facendo... Non aveva mai utilizzato quello stile di suonare prima. Non riesco nemmeno a ricordare come si chiamasse, quale fosse il titolo provvisorio. Ma dopo era sicuro come l'inferno 'Four Sticks'. Bonzo l'ha appena portato in un'altra stratosfera .
Questa non è stata la prima volta che il genio di Bonzo ha plasmato e guidato la versione essenziale di una canzone degli Zeppelin, come ha spiegato John Paul Jones nel libro di Chris Welch e Geoff Nicholls, John Bonham: A Thunder of Drums , " [Bonham] ha molti input in i riff che abbiamo suonato, più di quelli per cui è stato accreditato, direi. Avrebbe cambiato l'intero sapore di un pezzo e molti numeri sarebbero iniziati con uno schema di batteria. Avevamo costruito il riff attorno alla batteria. Suonerebbe uno schema che suggerirebbe qualcosa ”.
Un esempio di ciò è arrivato quando Zeppelin stava cercando di inchiodare "Four Sticks". Ma con il genio ispiratore della batteria di Bonham, ha dato vita a una nuova canzone che è diventata uno dei momenti salienti dei Led Zeppelin Four, come ha detto Page in Classic Rock Stories di Tim Morse , "Stavamo provando "Four Sticks" e non stava succedendo e Bonzo ha iniziato a suonare la batteria su "Keep a Knocking" [di Little Richard] mentre il nastro era ancora in esecuzione e io suonavo il riff automaticamente, quello era "Rock and Roll" e abbiamo attraversato l'intero primo verso. Abbiamo detto che è fantastico, dimentica "Four Sticks", lavoriamo su questo e le cose stavano venendo fuori così. [Era] una combustione spontanea ".
Mi piace credere che "Four Sticks" fosse pronto per nascere completamente e dai resti di quegli outtake è nata un'altra canzone degli Zeppelin. Non era una novità per la band, come ha spiegato Jimmy a Brad Tolinski in Light & Shade: Conversations with Jimmy Page , "Ecco come andava allora. Se qualcosa andava bene non lo mettevamo in dubbio. Se sta arrivando qualcosa di veramente magico, allora lo segui. Faceva tutto parte del processo. Abbiamo dovuto esplorare, abbiamo dovuto approfondire. Abbiamo cercato di sfruttare tutto ciò che ci veniva offerto ”.
Dopo aver terminato "Rock & Roll", ha dato a Page, Planet, Bonham e Paul Jones la sicurezza di fare un altro tentativo per finire la registrazione di "Four Sticks" come Page ha detto a Dave Lewis in Led Zeppelin: The 'Tight But Loose' Files , "W Ho provato diversi modi per affrontarlo. L'idea era quella di ottenere una sensazione astratta. L'abbiamo provata un paio di volte e non si è staccata fino al giorno in cui Bonzo ha bevuto una birra Double Diamond, ha preso due set di bastoncini e l'ha provata. È stato magico ».
----
A proposito di magia, quando Jimmy Page e Robert Plant si sono riuniti nel 1994 per i loro spettacoli Unledded/No Quarter , una delle canzoni che volevano provare era "Four Sticks". Originariamente Page e Plant volevano registrare questo raga rock dei Led Zeppelin IV con la Bombay Symphony Orchestra nel 1972 come spiegò Page; “ Siamo andati a Bombay nel 1972, e lì abbiamo registrato 'Friends' e 'Four Sticks' con musicisti indiani/ La natura di quanto eravamo bravi è nei riff. Avevamo tutti questi diamanti dalle mille sfaccettature. Non avrebbero mai dovuto esserci dei confini. E ci siamo assicurati che non ci fossero .
Anche se i risultati erano promettenti, ci sono voluti ventidue anni prima che Page e Plant realizzassero le loro interpretazioni ultraterrene di "Four Sticks". Plant ha descritto come alla fine "Four Sticks" intorno al 1994 si è sviluppato dall'idea alla realtà quando ha detto: " Abbiamo lavorato molto per sviluppare la musica prima di andare in Marocco ed era così forte e potente che quasi ci si chiedeva se avessimo bisogno di farlo qualsiasi roba di MTV e se potrebbe essere bello semplicemente fare un disco ed essere contato insieme a tutti gli altri in una forma totalmente contemporanea senza usare il passato e reiterarlo. Ma, ovviamente, l'esca era lavorare con gli egiziani e realizzare "Kashmir", "Four Sticks" e "Friends" nel modo in cui avevamo sempre sognato ".
https://youtu.be/hMrErYMmu6k
Four Sticks - Jimmy Page & Robert Plant
1994 Live with the Egyptian Ensemble and the London Metropolitan Orchestra
https://youtu.be/E5XiiWCq8ls
Jimmy Page & Robert Plant - Four Sticks at US Air Arena 3/23/1995
"In quattordici anni il modo di suonare di Jimmy mi era mancato così tanto che non appena abbiamo ricominciato ho capito che avevamo perso un sacco di tempo". A parlare è Robert Plant. L'anno è il 1994. E la notizia ha suscitato scalpore ed entusiasmo: Jimmy Page e Robert Plant di nuovo insieme. Ma questa volta non per una esibizione isolata in un qualche festival locale, bensì per realizzare un nuovo disco, a 15 anni dall'uscita dell'ultimo dei Led Zeppelin. Tutto nasce dalla proposta di partecipare al programma "MTV Unplugged". Page & Plant colgono allora l'occasione al volo: tornare insieme per suonare ancora le canzoni dei Led Zeppelin riarrangiate in chiave orientale. In passato avevano già accarezzato quest'idea: nel 1972 erano andati a Bombay per registrare con dei musicisti indiani "Four Sticks" e "Friends". La cosa si fece più per curiosità che per altro, e si trattò di un esperimento che non ebbe seguito negli anni successivi. Poi arrivò la morte di Bonzo, lo scioglimento del gruppo e le carriere soliste. Ma ora Jimmy e Robert erano ancora insieme per proporre qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima di loro: volevano tornare a "vivere una nuova giovinezza". Detto fatto: registrano in Marocco quattro nuove canzoni con dei musicisti locali ("Yallah", "City Don't Cry", "Wonderful One" e "Wah Wah") e partecipano con al seguito una quarantina di musicisti orientali e non allo show, il 12 ottobre del 1994, riscuotendo un enorme successo.
"No Quarter: Jimmy Page & Robert Plant Unledded" è quindi un album molto interessante perché mostra un territorio ancora inesplorato nell'ambito della musica, a molti di noi sconosciuto, e apre a noi occidentali le porte verso una nuova realtà, che magari non sapevamo neanche esistesse. A Page & Plant va inoltre il merito di aver fatto una scelta che apparve molto coraggiosa e ambiziosa 12 anni fa così come adesso: negli anni della musica-spazzatura-commerciale chi avrebbe mai pensato di fare una cosa simile? E' in aspetti e in scelte come queste che il 50enne Page e il 46enne Plant si riconfermano essere geni assoluti, sbaragliando tutta quella gentaglia (di oggi e di allora) che guadagna miliardi facendo della musicaccia, se di musica si può parlare, e anteponendo i soldi all'arte del fare musica. Ecco, Page & Plant con questo disco hanno fatto esattamente il contrario. E la differenza si sente, eccome.
Nell'album dei quattro brani nuovi registrati in Marocco uno risulta insopportabile ("Wonderful One") mentre gli altri tre ("Yallah", "City Don't Cry" e "Wah Wah") tutto sommato sono orecchiabili e godibili. Le canzoni degli Zeppelin invece sono tutte reinterpretate magistralmente: particolarmente degne di lode sono "Thank You", "Since I've Been Loving You", "Kashmir", "Four Sticks", e sopratutto una fantastica "Nobody's Fault But Mine" che risulta completamente irriconoscibile dall'originale su "Presence", se non fosse per le parole rimaste (almeno quelle!!!) identiche, e che da sola vale l'ascolto di tutto il disco.
Meno di un mese dopo l'esibizione a MTV, l'8 novembre 1994, uscì l'abum "No Quarter: Jimmy Page & Robert Plant Unledded" che riscosse successo in tutto il mondo (arriverà nella top ten sia in G.B, sia negli States) e che fu seguito da un lungo tour mondiale della durata di un anno. Peccato che nessuno in seguito abbia continuato però la strada che Page & Plant avevano aperto con quest'album, ma d'altronde lo si sa: alla musica di oggi bastano soltanto i soldi.
---------------------
Il successo di “Four Sticks” dei Led Zeppelin IV , la versione live raramente ascoltata da Copenhagen e la rivisitazione dinamica di Page & Plant di questo raga rock del 1971 deriva da come scrisse Keith Shadwick in L ed Zeppelin: La storia di una band e la loro musica: 1968-1980 , " L'intera struttura di 'Stick" dipende dall'estro del batterista ." Bonham è il protagonista di "Four Sticks", senza di lui, la pazienza di John e il suo genio intuitivo, la maggior parte delle canzoni degli Zeppelin sarebbero rimaste un'idea senza la scintilla per portare la musica alla luce. Bonham riceve raramente lodi per il suo contributo all'arrangiamento e al suono generale dei Led Zeppelin.
John Bonham viene spesso messo in ombra dalla maestria elettrica di Page con la sua chitarra e dalla voce d'oro di Plant, ma tutti sanno che, dopo la sua sfortunata scomparsa nel 1980, gli Zeppelin non potrebbero continuare senza il loro geniale produttore di capolavori che brandisce i suoi Four Sticks dietro i kit. Ora ti rendi conto di quanto John Bonham significasse per gli Zeppelin. Sai, a Page, Plant e Paul Jones manca ancora il loro migliore amico e batterista, ma almeno i suoi colpi da maestro sono immortalati in canzoni come "Four Sticks" per permetterci di sederci e stupirci della sua brillantezza alla batteria. Fortunatamente, come un cuore implacabile, il ritmo di Bonham continuerà a battere eternamente su creazioni in cera come "Four Sticks".
Nel quarto album dei Led Zeppelin, risalente al 1971, celebre per la voluta assenza di un titolo oltre che per i superbi capolavori che lo compongono, è contenuta anche Four Sticks (letteralmente “Quattro bacchette”), canzone ciclica e quasi ipnotica che la band storica al completo ha eseguito live una sola volta a Copenaghen, nello stesso anno della sua uscita. Cerchiamo di comprendere insieme cosa ne rendeva tanto difficile la realizzazione dal vivo.
COMPLESSITÀ SPERIMENTALE
Il gruppo fino all’ultimo temette di non poterla neppure includere nell’album, per l’alto livello sperimentale che la contraddistingueva e la difficoltà di esecuzione anche in studio. Nasceva da un’intuizione di Jimmy Page, che si basava su un riff ibrido ritmato tra 5 e 6 ottavi. Per aumentarne lo straniamento, John Paul Jones vi inserì sopra un sintetizzatore VCS3. La maggiore responsabilità stava però, come dice il titolo, sulle spalle e fra le dita di John Bonham, l’unico che poteva dettare il tempo:
Gli ci sono voluti secoli per suonare Four Sticks, era frustrante. Jimmy suonava qualcosa e John diceva: “È fantastico… Dov’è il primo battito?”. Non poteva davvero contare quello che stava suonando. Se pensi che ‘uno’ stia nel posto sbagliato, sei fottuto! (J. P. Jones)
IL GENIO DI JOHN 'BONZO' BONHAM
A volte pensando alla favolosa band si trascura la figura di John Bonham, leone in retrovia dall’energia fragorosa ma parzialmente oscurata dall’agone eterno tra gli incontenibili Page e Plant. Eppure Bonzo era enorme, una forza della natura che qui ha mostrato tutta la sua genialità. Spesso era lui ad avere il guizzo, la scintilla che rendeva tale il sound degli Zeppelin, a dare loro degli input definitivi capaci di cambiare l’anima di alcuni pezzi.
Bonzo aveva visto live i Ginger Baker’s Air Force e quando è tornato era entusiasta. Gli piaceva Ginger Baker ma soprattutto sentiva la competizione con lui, voleva superarlo, così ha raccolto quattro bacchette e via. Abbiamo fatto due take, di più non si poteva, ma fu stupefacente. Non l’aveva mai fatto prima: portò il pezzo nella stratosfera (J. Page)
ACCETTARE LA SFIDA
D’altronde, raramente i nostri eroi hanno lasciato perdere una sfida e così eccoli travalicare il loro più elementare blues originario: dato il livello dei quattro membri, tecnicamente dotatissimi, che ancora oggi non sappiamo se incasellare o meno nel sommo regno del prog, non c’era cosa che i Led Zeppelin non potessero gestire, fusi com’erano tra lo sperimentale e l’hard rock. Poco prima di avere l’intuizione di quelle quattro bacchette, Bonham aveva già dato il là alla creazione di Rock and Roll, prendendo in prestito l’intro di Keep a Knockin’ di Little Richard. Seguendo il flusso tutto arrivava naturalmente, come fu poi con la magia astratta di Four Sticks e del suo “click-clack” (che non era frutto di sovraincisioni ma proprio di quei quattro legnetti!). Bonzo, da fiero autodidatta quale era, preferiva sentire la musica dentro piuttosto che contarla. E i risultati erano sempre favolosi. Ecco perché con la sua scomparsa, nel 1980, i giochi per il gruppo si chiusero subito senza possibilità di appello.
Bonzo era la parte principale della band. Era l’uomo che faceva funzionare tutto ciò che Page e io scrivevamo. Non credo ci sia nessuno al mondo che potrebbe sostituirlo. (Robert Plant)
Nessun commento:
Posta un commento