sabato 19 febbraio 2022

43..DICONO E HANNO DETTO DI..ROBERT PLANT E LED ZEPPELIN.."(interviste varie)

 

42..DICONO E HANNO DETTO DI..ROBERT PLANT E LED ZEPPELIN.."(interviste varie)


 “È stato Plant a portare la bucolica campagna gallese nel processo creativo del gruppo. Letteralmente, Plant ha fornito le piante, le erbe e le radici, per gli incantesimi di Page.

- Randall E. Auxier, in Led Zeppelin e Filosofia , p. 127.
e per non innestare equivoci:
Se si parla di ambiente bucolico, si intenderà sottolineare la tranquillità e serenità di un dato luogo. Un amore bucolico sarà invece caratterizzato dall'ambientazione agreste, ma anche contraddistinto da semplicità, romanticismo e purezza dei sentimenti.



💞
"I chitarristi rock della sua generazione sono probabilmente i più grandi nella storia del rock", ha detto il presidente dell'Atlantic Records Ahmet Ertegun. “ma Jimmy Page è il meno convenzionale, il più personale. ha sviluppato uno stile magico e distintivo”.

https://www.nonsensemag.it/no-report-il-sacro-fuoco-di-robert-plant/?fbclid=IwAR3sQkRKQAV5H2aUdyC9ohFjSJgbfHafey_9gJzBQKHl88ljM87esnlKFfs
No Report – Il Sacro Fuoco di Robert Plant
Coperta da una coltre di foschia all’orizzonte, durante l’ultimo appuntamento del riuscito “Milano Summer Festival”, l’attesa eclissi lunare non è stata visibile dall’Ippodromo. Tuttavia, il fatto che a chiudere la rassegna sul palco fosse presente una leggenda come Robert Plant, ha regalato comunque esperienze mistiche alla marea di spettatori presenti per questo grande evento.
Anche stavolta, come per la precedente data di Alanis Morissette, oltre che dal caldo e dalle immancabili zanzare, siamo colpiti dalla quantità e varietà del pubblico: ad accogliere Plant ed i suoi “Sensational Space Shifters” troviamo difatti persone di ogni età, tutte frementi a modo loro in trepidante attesa, con un piacevole clima interpersonale in cui persone più mature e adolescenti si trovano a discutere su cosa attendersi da parte di questa leggenda del rock, che nell’agosto 2017 ha di nuovo sorpreso tutti con un lavoro di altissima fattura tecnica e compositiva come “Carry Fire”.
L’apertura del live è affidata a mezz’ora di esibizione “en solo” di Seth Lakeman a partire dalle 20:00, polistrumentista della band (viola, violino, chitarra tenore, ecc…), il cui raffinato e coinvolgente folk rock accende già l’entusiasmo dei presenti, che trovano nei suoi ottimi brani tracce del sound dei recenti lavori dell’ex frontman dei Led Zeppelin.
Dopo aver tributato i doverosi applausi a Seth, che avrà modo di riceverne molti altri anche nel resto della serata, non resta che attendere le 21, quando con perfetta puntualità british, il super impianto del Milano Music Festival interrompe la musica di sottofondo, per iniziare a suonare una intro tribale che annuncia inequivocabilmente il ritorno del Re: fa quindi il suo ingresso la band e subito dopo ecco che arriva Robert Plant in persona, con passo sicuro e aria sorniona.
L’ouverture avviene con un grande classico, “The Lemon Song” da “Led Zeppelin II”, un perfetto esempio del miglior rock blues in cui già scorgiamo quelli che saranno i due leitmotiv della serata: la bravura dei “Sensational Space Shifters”, band affiatata e tecnicamente mostruosa, che gioca meravigliosamente coi classici di ieri ed oggi dando loro energia e vitalità, e ovviamente la presenza scenica di Robert Plant. Il cantante inglese infiamma gli animi con una voce che si è certamente modificata negli anni, abbassandosi lievemente in cambio del mantenimento della capacità di emozionare col suo inconfondibile timbro, ancora sensuale ed appassionato e in grado di “sparare” degli acuti da pelle d’oca, a dispetto dei ormai settant’anni alle porte.
Plant si muove ancora con un buon dinamismo, gioca con l’asta del microfono e si gode l’adorazione del pubblico con la consapevolezza della rockstar matura, che pure mantiene dentro di sé quell’entusiasmo giovanile che la porta ancora a calcare i palchi del mondo intero per diffondere il vangelo del rock e del blues… avendo ancora molto da dire a proposito di musica, anzi, proponendo una setlist apparentemente breve che tuttavia racchiude in sé la storia dei due generi.
Ciò che ci ha difatti colpito è stato il modo in cui artista e band abbiano infiammato la platea proponendo sia i classici degli Zep, sia cover blues/bluegrass, sia soprattutto estratti dagli ultimi lavori solisti dell’artista, senza che venisse mai meno l’entusiasmo dei presenti.
Sarà il grande assolo di chitarra di “Turn it up”, sarà lo spettacolare dobro di “The May Queen” accompagnato dall’incessante battito di mani del pubblico, sarà il british humour di Robert, che si compiace del clima italiano “proprio freddo come quello UK”, ma i minuti passano lieti, apprezzando i virtuosismi della band che allungano considerevolmente la durata dei brani, che cambiano a tratti forma e sound sorprendendo piacevolmente tutti.
Plant, furbescamente, ha costruito una setlist perfetta, ed ecco che, giocando di nuovo con l’asta, attacca con l’inconfondibile “Black Dog”, il cui sound sembra adeguarsi agli standard più attuali senza tuttavia alcuna variazione sull’esito dell’esecuzione: pubblico a dir poco in delirio e jam finale a suon di blues, a ricordare che tutto il rock è nato da lì.
Plant, da sempre accostato a figure cavalleresche per il suo aspetto, nel 2018 sembra davvero un re normanno calato in Italia per una facile conquista: che proponga un altro classico degli Zep come “Going to California” (di cui abbiamo apprezzato la bella intro acustica ed i sussurri del cantante) o una vecchia cover come “Please read the letter” riproposta nella chiave bluegrass già apprezzata nell’album in duo con Alison Krauss, il risultato è il tripudio dei presenti, ai quali sembra di presenziare ad una lectio magistralis sulla storia della musica.
C’è spazio per un esplosivo omaggio al blues con “Gallows Pole”, con tanto di tributo di Plant a quel Leadbelly che ne fu uno dei più eccelsi esecutori, per l’esecuzione della mistica “Carry Fire” in cui il nostro eroe si tramuta in uno sciamano moderno e poi quello che forse è il colpo di grazia per tutti, con quel concentrato di nostalgia e passione intitolato “Babe I’m gonna leave you” che sorprende ed ammutolisce per due buoni minuti il pubblico, che esplode quindi in una standing ovation a cui segue la presentazione di ogni singolo membro del gruppo.
Il set principale si conclude con due brani tradizionali e la band esce, acclamata subito per i bis da parte di un pubblico che ancora non ne ha avuto abbastanza. I brani sono stati solo 11, ma la loro intensità e le dilatazioni dovute alle improvvisazioni strumentali hanno fatto sì che quest’ora e 10 di concerto sia stata un’esperienza totale e soddisfacente, alla quale non rimane che una chiusura in grande stile.
C’è quindi tempo per una dolce e nel contempo appassionata esecuzione di “Rainbow”, dal penultimo “Lullaby… and the Ceasless Roar”, e per un medley finale a base di Led Zeppelin ricco d’improvvisazione, nel quale “Whole lotta Love” la fa da padrona dando il colpo di grazia ad un pubblico in delirio, al quale non resta che dare il doveroso tributo alla band che si presenta per il classico inchino, augurando la buonanotte a tutti.
Si chiude così il concerto di Robert Plant nonché la rassegna “Milano Summer Festival”.
Una doverosa considerazione va fatta sulla manifestazione, molto ben organizzata ed affiancata ad altri eventi milanesi come il TRI.P, l’i-days e i concerti della rassegna “Estate Sforzesca”, che hanno portato nella metropoli lombarda un’ampia serie di artisti della scena nostrana ed internazionale per gli amanti di ogni genere musicale.
Sul cantante inglese cosa dire di più… gli aggettivi per descrivere la performance e la presenza scenica di questa leggenda del rock si sprecano: Plant ha portato con sé umiltà, simpatia, carisma e bravura, conquistando tutti e dando la dimostrazione di essere ancora oggi uno dei migliori frontman di sempre. Impossibile chiedere di più, perciò grazie ancora, Robert, e ti prego continua a portare nel mondo il fuoco sacro del grande rock.
The Lemon Song (Led Zeppelin)
Turn it up
The May Queen
Black Dog (Led Zeppelin)
Going to California (Led Zeppelin)
Please Read the Letter
Gallows Pole (Led Zeppelin – Leadbelly cover)
Carry Fire
Babe, I’m gonna leave you (Led Zeppelin)
Little Maggie (traditional)
Fixin’ to die (traditional blues)
Encore #1 – Rainbow
Encore #2 – Bring it on Home / Whole Lotta Love / Santianna /Whole Lotta Love reprise (medley)




https://www.linkiesta.it/2022/02/led-zeppelin-recensione-1969/?fbclid=IwAR1PZOooEbLXWppRqMM_zGdRuFUecGwwjUWi9uXquB-ZeFkY4C0FdTMc9V0
Dazed and confusedL’anno in cui la musica fu stravolta dall’apocalisse bombastica dei Led Zeppelin
Nel 1969 nessuno aveva il suono del gruppo rock britannico. Dopo, tutti hanno cercato di copiarli, ovviamente senza riuscirci. Il loro blues progressivo stupisce tutti: dai teenager con gli ormoni a palla fino ai palati sofisticati. Se lo sentirete a volume adeguato, nelle orecchie risuonerà la sensazione di essere appena passati attraverso una tempesta. Read&Listen
Carlo Massarini..
continua....
Come spesso accade per tutte le cose grandi, comincia tutto in una stanza piccola, un basement a Gerrard Street, nel centro di Londra, il dodici agosto 1968. Sono in quattro, appiccicati uno all’altro perché gli amplificatori occupano quasi tutto il pavimento, ed è la loro prima volta. Il chitarrista si chiama Jimmy Page, ed è sicuramente quello che ha più storia alle spalle, anche se ha solo 25 anni. È stato il terzo chitarrista in sequenza in uno dei gruppi migliori del blues inglese, quegli Yardbirds che hanno ospitato prima Eric Clapton (fuggito per lesa maestà bluesistica quando hanno avuto un hit in classifica) e poi Jeff Beck. Praticamente i tre migliori chitarristi inglesi di tutti i tempi. Quelli, appunto, erano i tempi, amici miei. 

Ha mancato di poco lo storico Sanremo del ’68 in cui si sono esibiti con Lucio Dalla e Bobby Solo, ma è colui che, quando il gruppo si è sciolto (cosa quasi nel DNA delle band di quel periodo) ha creato una band, denominata New Yardbirds, per soddisfare gli obblighi contrattuali di un tour in Scandinavia: «Ho sentito Robert Plant suonare nelle Midlands e l’ho invitato a casa mia per mostrargli cosa avevo in mente. Lui mi ha parlato di Bonham e quando siamo andati a sentirlo suonare ho sentito subito una grande affinità. Poi mi ha chiamato John Paul Jones chiedendomi se avessi per caso bisogno di un bassista, e il gruppo era fatto». Come Page, anche Jones viene da un periodo intenso e stressante di sessionman, al basso e tastiere: è la moglie che lo ha spinto a fare quella telefonata, ed è il collante delle straordinarie capacità soliste di chitarra e batteria. Affidata, questa, a John Bonham, le mani più pesanti del rock a venire, amico di scorribande fra balere e discoteche di Plant: «due grossi pesci rumorosi che nuotavano controcorrente, John con la sua incredibile tecnica ed esibizionismo, io col mio continuo, incessante ululato». 

Sono i due meno esperti, e sul libro fotografico che ne celebra il 50enario, “Led Zeppelin by Led Zeppelin”, non ne fa mistero: «Che differenza avrebbe fatto una piccola sala prove a Chinatown? Quei due erano esotici, maturi, avevano stile e suonavano da sogno. Perché di questo si era trattato fino ad allora, di un sogno. Funzionavano a un altro livello, con una tale profondità e consapevolezza. Da un crescendo si passava al silenzio assoluto, e poi di nuovo gloriose esplosioni sonore». Dall’altro punto di vista, i due ’esperti’ li scrutano. Jones ricorda che «da bassista volevo vedere come se la cavava il batterista, se è mediocre non vale neanche la pena provarci. Mi sono reso conto subito che era un batterista straordinario e che c’era una grande sintonia». Aiuta il fatto che entrambi amino la black music di quegli anni, Motown e Stax e r’n’b: “ero un grande appassionato di jazz e r’n’b. Spesso la mia parte era complementare alla chitarra, e non c’è niente di meglio di un basso e una chitarra che suonano la stessa cosa”. 

Insomma, è amore alla prima prova. Quel nome lì, però, suonava di vecchio. E allora, leggenda vuole, perché non usare quella battuta di Keith Moon, che doveva essere uno dei membri della super band abbozzata e mai quagliata, quella con Beck e Page alle chitarre? «It’ll go down like a lead balloon (affonderà come un pallone di piombo)», al che John Entwhistle (sempre Who, il quarto del supergruppo che non fu) aggiunse «like a lead zeppelin!». Leva una a dal lead, tieni il mitologico dirigibile Zeppelin, simbolo fallico di 200 metri se ce n’è uno, e il nome è cosa fatta. Niente scaramanzia. Tutto XXXL fin dall’inizio.

La descrizione di Plant dei pieni e dei vuoti sonori di quelle prime prove fotografa bene la dinamica che fin dall’inizio caratterizza gli Zeppelin. Loro e il gruppo che parallelamente ha messo in piedi Jeff Beck, con Rod Stewart alla voce, sono gli ultimi in scia di quell’amore per il blues elettrico afro-americano che non solo ha caratterizzato il secondo lustro degli anni 60 inglesi, ma ha letteralmente creato le basi del futuro rock (e derivati). Rispetto ai primi, però, gli Zep sono più focalizzati, hanno un repertorio e una capacità compositiva migliore, tecnica da vendere ma più al servizio del complesso. Non sono l’unione di tre solisti, come i Cream di Clapton, già sul punto del dissolversi, un po’ come l’era della psichedelìa con le sue jam senza fine. Sono davvero il modello della musica che verrà: stracarichi di riff – cioè l’essenza del r’n’r- ma anche in possesso di una vena melodica notevole, musica cazzuta ma senza (troppi, almeno all’inizio) deliri autoindulgenti che travieranno i loro emuli, capacità di improvvisazione, varietà di temi e di ispirazioni – non solo il blues di Chicago, ma anche il folk britannico. 

“Led Zeppelin” è un debutto pazzesco sotto tutti i punti vista, uno quei dischi che cambiano il corso della storia: nel 1969, niente e nessuno ha il suono dei Led Zeppelin. Dopo, tutti cercheranno di avere il suono degli Zeppelin, ovviamente senza riuscirci. Perché la chimica fra i quattro – ognuno dei quali ricorda come molto speciale quella prima session di conoscenza reciproca, in cui hanno infilato i jack e acceso gli amplificatori e han cominciato a suonare ’Travelling Riverside Blues’ senza sapere cosa sarebbe venuto fuori – è di quelle che si crea una volta nella vita. Sono giovani e non si guardano indietro, sono istintivamente aperti a tutto quello che può succedere, flessibili e avventurosi. Sono magnificamente in connessione fra di loro: potenti ma precisi, al servizio di una costruzione d’insieme, ognuno non solo superbo tecnicamente – e cresceranno molto nel tempo- ma anche con una grande personalità musicale.

Il risultato è un blues progressivo, non più una copia ma un’evoluzione dell’originale a 12 battute, perfetto per i ragazzi degli anni 70, così diversi dai loro coetanei – o da loro stessi – solo pochi anni prima. Musica per teenagers headbangers con gli ormoni a palla ma anche per palati fini, perché la potenza è nulla senza controllo, e Page in controllo lo è pienamente.

«Jimmy Page, l’architetto sonico dei Led Zeppelin», ha scritto Mark Richardson su Pitchfork nella ennesima recensione postuma, «sentiva il blues in maniera diversa. In primo luogo come un suono, piuttosto che una forma o una tradizione o un prodotto delle personalità: forse è per questo che si sentiva così disinvolto quando ’prendeva in prestito’ dai dischi di blues senza riconoscere i crediti, perché non puoi fare il copyright di un suono. Sicuramente comprendeva l’elemento di induzione della trance attraverso la ripetizione del blues meglio di chiunque altro: blues come rituale di espansione della coscienza».

Gli epigoni avranno vita dura nel confronto, e la deriva verso l’heavy metal sarà inevitabile ma spesso solo per aspiranti, più che alla santità del rock, alla sordità col rock. Gli Zep non sono heavy metal: heavy sì, pesantissimi, ma Plant ha sempre detestato l’insinuazione. Guardando un giorno un poster dei Judas Priest ha detto «se sono responsabile di questo in una qualunque maniera, sono veramente imbarazzato». Per il suono e per il look.

La cosa veramente interessante, e anche un po’ più imbarazzante dei Judas Priest, è l’impatto di questo primo Lp su buona parte della comunità dei critici musicali di allora, Rolling Stone in particolare. La recensione d’epoca lo paragona molto sfavorevolmente (’tristemente reminescente’) a “Truth” del Jeff Beck Group che l’ha preceduto di poco, e aggiunge che Page, «pur competente chitarrista, è un produttore molto limitato e autore di canzoni deboli e senza immaginazione. Se vogliono riempire il vuoto lasciato dai Cream è meglio che si diano da fare e trovino materiale adeguato». In risposta, gli Zeppelin per tutta la carriera non concederanno mai un’intervista alla più importante rivista americana. Non ne avranno bisogno. Ma com’è possibile che abbiano cannato in questa maniera?

Piuttosto incredibile, anche se 50 anni dopo RS, approfittando di uno dei tanti repackaging che i dischi degli Zep hanno avuto negli ultimi 30 anni, ne pubblicherà una che sa di penitenza in piena regola. Difficile capire il perché di questo ostracismo, che durerà non pochi anni. Io il mio impatto da sedicenne con ’Dazed and Confused’ me lo ricordo come fosse ora: in salotto, ascoltando la radio, che certo non suonava come uno stereo, rimasi choccato, pensavo fossero atterrati i marziani e avessero cominciato a fare dischi. Non era il primo disco che ascoltavo, c’erano già stati gli Who e Jimi Hendrix, ma la sensazione era che nessuno avesse mai suonato una musica così potente, fisicamente trascendente, spaced out, apocalittica. Così rock, anche se il termine sarebbe stato certificato dopo l’avvento degli Zep.

Come l’iconica copertina, rielaborazione grafica di George Hardie del Luftschiff Zeppelin Hindenburg #129 che prende fuoco e fa una strage nel 1937 atterrando nel New Jersey dopo una transvolata oceanica, i Led Zeppelin promettono dall’inizio fuoco e fiamme, un’apocalisse bombastica. E lo fanno con la produzione di Page, che è tutt’altro che limitata: è essenziale, attenta a mettere a terra tutta la potenza della band che si riunisce in sala di registrazione nell’ottobre 1968, circa due mesi dopo il loro primo incontro e il tour svedese. Page ha già una bella esperienza in studio, è stato uno dei musicisti più richiesti come turnista di lusso negli anni precedenti, lo trovate (accreditato o meno) in centinaia di brani. È ricco, già a modo suo una star riconosciuta, ma vuole creare qualcosa di nuovo.

In un’intervista a Phil Alexander su Mojo, racconta la visione iniziale: «La mia collezione di dischi era veramente eclettica. Tutti avevano dischi di r’n’r, magari con i dischi blues del catalogo Chess. Ma io avevo musica da sitar, araba ed elettronica. Ero appassionato di musique concrete dove la musica viene tagliata, un equivalente musicale del lavoro di cut up di Burroughs. Mi piaceva anche la musica classica, tradizionale e moderna. Negli Yardbirds avevo cominciato a fare una musica che missasse musiche, tessiture e suoni diversi. Ho continuato in questa direzione coi Led Zeppelin. Cercavo di creare qualcosa che non si fosse mai sentito prima, o comunque non si fosse mai sentito come lo suonavamo noi. È quello che ho cercato di fare fin dai primi accordi di ’Good Times Bad Times’».

Quella doppia pennata di chitarra che arriva a sorpresa da subito e poi continua a ripetersi con la violenza di un martello, il charleston che come un metronomo tiene il tempo, il campanaccio che lo raddoppia e la rullata che introduce la voce di Plant sono l’inizio della leggenda, un riff r’n’b di Jones a tenere insieme le varie stanze della canzone. Nonostante la canzone potrebbe essere un pezzo pop anni 60, c’è una brutalità che non lascia nulla di inespresso. Quando a 1’30” parte un assolo di 20” di cattiveria inaudita si capisce che c’è poco da scherzare. 

Qui si fa sul serio, e Page ha l’esperienza per sapere quanto sia importante catturare la energia cruda delle performance, sempre in presa diretta, con poche sovraincisioni. Negli Olympic Studios, ingegnere del suono quel Glyn Johns che lavora con Who e Stones, dispone i microfoni in vari punti della sala. È lo stesso effetto dei dischi di blues della Chess, allora ancora in mono, per avere un suono d’ambiente, in cui la pulizia non è in cima alla lista delle priorità, anche se ogni strumento è scolpito e potente di suo. La batteria di Bonham viene posta su una pedana per amplificarne la potenza, «catturare ogni frequenza proveniente dalla batteria era fondamentale per sentirla respirare mentre veniva suonata». Nel mix, il basso assurge a un volume e a un’importanza da colonna del tempio. Ogni singolo suono o strumento è definito, ognuno aggiunge la sua parte al suono d’insieme, più grande della somma delle sue parti, ed è questo il segreto del trionfo sonoro di “Led Zeppelin” e delle otto produzioni discografiche in studio – tutte firmate da Page – che seguiranno, dal ’79 al ’91.

Il secondo brano dichiara subito che non sarà tutto heavy, che c’è spazio per un lato acustico. ’Baby I’m Gonna Leave You’ è un brano anni 50 della folksinger americana Anne Bredon, ed è il primo brano che Page fa sentire a Plant, già tutte le parti di chitarra in testa, quando viene a trovarlo sulla sua nuova casa sul fiume a Pangbourne, fuori Londra. Lo sentono dall’album “In Concert” di Joan Baez, che riprendendola l’ha firmata ’traditional, arrangement Joan Baez’ senza citare l’autrice, e così anche Page se ne intesta l’arrangiamento. Non è l’unica dimenticanza riguardo ai crediti dell’album (dal ’91 dopo una causa sarà co-intestata), ma almeno l’arrangiamento qui c’è, perché quella che è una ballata a un certo punto si ferma e diventa heavy, una tempesta di basso e batteria, la voce di Plant alta e sofferta, poi ritorna acustica e poi ritorna dura e poi di nuovo acustica e poi di nuovo come un tuono, la battuta sul quarto quarto fenomenale, memorabile come quella di ’Gimme Some Lovin’. Sul finale, la chitarra filtrata attraverso un altoparlante Leslie cede di nuovo il passo alla melodia folk, un’alternanza che è la sintesi di due anime, una scelta di dinamica estrema che sarà sempre una delle matrici del gruppo (si pensi alla ’Stairway To Heaven’ che è ancora lontana).

Terzo brano, altra influenza in primo piano: ’You Shook Me’ è il migliore dei due brani presenti del principale autore blues degli anni 60 (oltrechè contrabbassista in house della Chess Records) Willie Dixon, scritto sette anni prima per Muddy Waters. È la radice primaria della musica degli Zeppelin, e se cercate un esempio di come i quattro hanno trasformato il blues afroamericano, questo è quello giusto. La chitarra di Page acida e durissima con una spruzzata di psichedelìa, la voce di Plant altissima, feroce, il basso e la batteria così heavy che ogni battuta sembra il passo di un gigante che fa tremare il suolo dove cammina: «Non è facile essere così funky con un brano lento, ma John c’è riuscito». Jeff Beck l’ha proposto per primo in “Truth”, accusando l’ex compagno di avergli rubato l’idea. Il confronto è utile per capire le differenze di approccio, quello degli Zeppelin oggettivamente più riuscito.

Attaccato, senza pause, arriva ’Dazed and Confused’, musica così solida e allo stesso tempo così liquida in certi passaggi, una sorta di jam improvvisata durante la quale – artificio già messo in pratica con gli Yardbirds- Jimmy Page imbraccia l’archetto del violino e suona la sua elettrica con effetto che di volta in volta è melodico, dronico, irreale, spaziale, marziano. La carica dei quattro dell’apocalisse poi parte di colpo e si fa orgia elettrica, un fiume in piena che trascina via tutto, tonalità sempre più alte, finchè le rullatone di Bonham riportano tutto alla base, per un attimo torna il blues primordiale in mezzo a un vortice di effetti, volume che si impenna e poi si placa. Sempre Page: «per certi versi, è disturbante da ascoltare. Ma era voluto. Non voleva essere educata. Voleva creare un disturbo nella tua mente». Anche ’Dazed and Confused’, firmata sul disco da Page, è in origine una folk song, questa di Jack Holmes, cantautore americano che ha suonato, guarda caso, come apertura in un concerto degli Yardbirds a New York. Rimarrà sempre uno dei brani centrali degli Zeppelin dal vivo, improvvisata e strecciata a volte fino alla mezz’ora.

Una intro classicheggiante all’organo da parte di Jones apre la seconda facciata, chitarra acustica e melodia, e alla fine delle strofe una sorta di gospel, minaccioso però: ’Your Time Is Gonna Come’, la ritmica che scandisce e la pedal steel guitar che innalza. Lo strumentale ’Black Mountain Side’, basato sull’arrangiamento del traditional ’Black Water Side’ di uno dei maestri del folk britannico Bert Jansh, doppia chitarra acustica sovraincisa e tabla di Viram Jasani, è un assaggio ulteriore di quel lato acustico, più celtico che country, che sarà sempre presente nei loro album, una vetrina per i virtuosismi di fingerpicking di Page. 

’Communication Breakdown’ è il rock veloce dell’album, la voce di Plant che sale sopra la chitarra di Page già alta di suo: come nelle improvvisazioni vocali, come nei blues tirati per il collo e in ogni direzione, la voce di Plant è assolutamente fondamentale per il suono nell’insieme. «Uno strumento a sé stante», dice Page sempre su Mojo, «non volevamo un crooner che cantasse sopra quello che stavamo suonando. Volevamo qualcuno che suonasse totalmente disinibito. Primordiale! Era chiaro fosse un ginnasta vocale, e sapesse anche improvvisare. E anche questo era super importante per me. Volevo uno che improvvisasse e che si mangiasse le canzoni». 

Il secondo blues di Dixon, ’I Can’t Quit You baby’ (l’originale nel repertorio del grande Otis Rush) porta all’ultimo brano dell’album, ’How Many More Times’, e sono 8’30” di tour de force da mozzare il fiato. Una chitarra wah wah filtrata apre, e poi arriva tutto il resto dell’artiglieria, il riff di base con un incedere da battaglia campale e i break di chitarra che arrivano fino in cielo mentre Bonham sotto rulla come non ci fosse un domani. Dentro c’è di tutto, dalle citazioni blues di ’How Many More Times’ di Howlin’ Wolf al Bolero di Ravel, finchè si scivola in un’improvvisazione quasi ambient, un drumming leggero che fa da appoggio per la parte solista di Plant. Canta, si lamenta, urla e strepita istrionicamente mentre il suono alle spalle cresce, cresce ancora e alla fine si trasforma in una sorta di heavy hip-hop antelitteram, un controtempo tostissimo che sfocia in ’The Hunter’ di Albert King (scritta da Booker T. & the MG’s, la stratosferica studio band della Stax). Poi riparte daccapo il riff iniziale, sempre più torrenziale, e si chiude nel delirio sonico con un ultimo sbreng!.

Se l’avete sentito a volume, diciamo, adeguato, il silenzio cala come un vuoto, le orecchie che risuonano e la sensazione di essere appena passati attraverso una tempesta. Tipo quando in autostrada incocci un diluvio che di colpo finisce e c’è il sole, e ti chiedi «whew, che è successo?».

Questo è l’effetto che più di 50 anni dopo ancora porta con sè il debutto degli Zeppelin. Immaginatevi allora, con l’effetto-prima-volta. Stordente, e così sarà il format per tutta la loro corsa. «Pensavo, prima ancora di avere il gruppo, che se un album fosse stato realizzato con abbastanza contrasto, con abbastanza drammaticità, quello che chiamiamo luce e ombra, e poi le parti vocali, e la chitarra suonata in modo superheavy, sarebbe stato incredibile. È ciò che abbiamo tentato di fare».

Vera mente di tutta l’operazione, Jimmy Page paga con i suoi soldi la produzione, duemila sterline per 30 ore di studio in nove giorni missaggio incluso, e con il gigantesco (e cattivissimo) manager Peter Grant contatta a New York la Atlantic di Ahmet Ertegun e Jerry Wexler: «Ci siamo presentati con il disco già finito, e quindi potevamo imporre le nostre condizioni. Era un affare da prendere così o lasciare. Hanno capito che era musica radicale, non avevano mai sentito nulla del genere».

Firmano subito, obiettivo il mercato degli album, nei patti anche nessun singolo (ma il patto verrà sospeso per ’Whole Lotta Love’), e pieno appoggio. Nessuna apparizione televisiva, centinaia di interviste solo alle radio FM underground americane: «a volte anche in un tenda nel mezzo del nulla, ma solo con gente che capiva e amava quello che facevamo». Lentamente, per passaparola ed entusiasmo crescente, gli Zeppelin passano dal Marquee a Londra ai due Fillmore, East and West a NYC e San Francisco, e presto arriveranno i tutti esauriti negli stadi. 

In un solo anno, “Led Zeppelin II” uscirà sei mesi dopo, scrivono la loro storia di how the west was won. 


------------------


INCONTRI PREDESTINATI
Come ha ricordato Plant del loro primo incontro: “Stavo comparendo in questo college quando [il manager Peter Grant] e Jimmy si sono presentati e mi hanno chiesto se volevo unirmi agli Yardbirds. Sapevo che gli Yardbirds avevano lavorato molto in America, il che per me significava un pubblico che avrebbe voluto sapere cosa avrei potuto offrire, quindi naturalmente ero molto interessato".
Plant ha cantato la canzone dei Jefferson Airplane "Somebody To Love" a Page. Page in seguito ha ricordato il momento: "Quando gli ho fatto il provino e l'ho sentito cantare, ho subito pensato che ci doveva essere qualcosa di sbagliato in lui dal punto di vista della personalità o che doveva essere impossibile lavorare con lui, perché non riuscivo proprio a capire perché, dopo che lui mi ha detto che cantava già da qualche anno, non era ancora diventato un grande nome. Quindi l'ho tenuto a casa mia per un po', solo per controllarlo, e ci siamo trovati benissimo. Nessun problema."
La prima scelta di Page per il ruolo di cantante era Terry Reid.
Tuttavia, Reid rifiutò l'offerta e suggerì al suo posto Robert Plant. Detto per inciso Reid rifiutò anche l'offerta di Ritchie Blackmore di diventare il cantante dei Deep Purple. Plant accettò il posto e raccomandò John Bonham come batterista. Ai tre si unì poi il bassista John Paul Jones e così si formarono i New Yardbirds, poi trasformatisi nei Led Zeppelin.
Secondo il cantante dei Free e dei Bad Company Paul Rodgers, Robert Plant lo contattò prima di unirsi ai Led Zeppelin per chiedergli la sua opinione. Nel 2018 Rodgers parlando al programma radiofonico Ultimate Classic Rock Nights disse di avere incontrato Plant a Birmingham quando suonava con i Free e Alexis Korner, aggiungendo che in quel momento Plant aveva tutte le carte in regola per diventare un membro dei Led Zeppelin dato l'aspetto e il talento.
Rodgers ha ricordato che Plant andò al loro hotel per bere una tazza di tè prima di unirsi ai Led Zeppelin. Durante la loro conversazione, Plant parlò a Rodgers dell'incontro con Jimmy Page e gli chiese se avesse mai sentito parlare di lui. Plant rivelò che gli offrirono un lavoro per suonare in una band a 30 sterline alla settimana, che equivalgono a 520 sterline alla settimana nel 2018. A dire di Paul Rodgers Plant gli disse che avrebbe accettato l'accordo. Questo il racconto di Rodgers: “Ho incontrato Robert a Birmingham quando ero con i Free e abbiamo suonato con Alexis Korner. Robert si alzò per suonare con Alexis, questo era prima dei Led Zeppelin, e lui c'era tutto. Intendo dire i capelli, l'aspetto, tutto. Tutto ciò di cui aveva bisogno era una band, i Led Zeppelin. È tornato al nostro hotel per una tazza di tè e disse, "Oh, ho incontrato questo chitarrista a Londra che si chiama Jimmy Page. Hai sentito parlare di lui?' Gli ho detto, 'Sì, molte persone parlano di lui. È un grande session man giù a Londra.' Disse, 'Mi hanno offerto un lavoro. Vogliono mettere insieme una band. Mi hanno offerto 30 sterline a settimana oppure una percentuale. Cosa ne pensi?' Io risposi, 'Beh, sai cosa farei? Prenderei la percentuale.'”


Robert Plant: la voce che stregò il mondo intero
La voce del leader dei Led Zeppelin ha lasciato a bocca aperta ogni suo ascoltatore e non solo durante il suo percorso con la band. Eccone un esempio.
Lo storico frontman dei Led Zeppelin ha di certo una di quelle voci difficili se non impossibili da dimenticare. Durante la sua carriera molti si sono chiesti – senza mai riuscire a darsi una risposta – come riuscisse a toccare note così alte mantenendo l'intonazione.
Dev'essere stato questo il caso di Jimmy Page, chitarrista e futuro collega di Plant, durante il suo primo incontro con l'artista: in quel momento, infatti, Page stava cercando un nuovo cantante per la sua neonata band ed era stato indirizzato proprio verso Plant, il cui nome all'epoca non era ancora così conosciuto. Dopo averlo sentito cantare una cover di Somebody To Love dei Jefferson Airplane, Page rimase estasiato e commentò così la performance del collega:
Quando l'ho ascoltato durante l'audizione ho pensato subito che dovesse esserci qualcosa che non andasse nella sua personalità oppure che fosse una persona con la quale non si poteva lavorare in armonia perché proprio non capivo come, avendo iniziato a cantare già da diversi anni, potesse non essere ancora diventato famoso.
Insomma, non è sbagliato dire che Plant lasciò letteralmente Page a bocca aperta, e non solo lui: conosciamo tutti il grande successo di pubblico che il vocalist ebbe come frontman di uno dei gruppi più innovatori della storia del rock. E come solista? Plant non fu da meno. Prendiamo in esame, per esempio, il suo primissimo disco senza i compagni, PICTURES AT ELEVEN.
Era il dicembre del 1980 quando i Led Zeppelin conclusero il loro periodo di attività come band (salvo poi riunirsi in diverse occasioni - ve ne abbiamo parlato qua). A quel punto, anche la sicurezza di un leader carismatico come Plant non poté che vacillare. Il cantante pensò, infatti, di lasciare definitivamente la strada dell'industria musicale per intraprendere una nuova carriera come insegnante ed era davvero a un passo dal convincersi di questa idea quando scelse di fare un tentativo e di pubblicare il suo primo disco come solista.
Siamo nel giugno del 1982. Robert Plant fece il suo debutto con il sopracitato PICTURES AT ELEVEN accompagnato anche da Phil Collins dei Genesis, e dall'ex membro dei Rainbow Cozy Powell.
L'impronta dei Led Zeppelin si ritrova nell'etichetta discografica scelta per la distribuzione di questo primo album di Plant: la Swan Song, progetto nato proprio da un'idea della band britannica nel 1974. Fu il primo e ultimo album pubblicato da Plant in collaborazione con la Swan Song dato che di lì a poco l'etichetta avrebbe chiuso i battenti.
Una curiosità interessante sull'album riguarda il titolo: si tratta di una frase che si sentiva molto spesso durante i telegiornali statunitensi di quel periodo e che, pronunciata dal presentatore dopo un breve riassunto di una notizia di interesse pubblico, stava a indicare che quella stessa notizia sarebbe stata approfondita nell'edizione delle undici del tg. Decisamente un titolo curioso.

PICTURES AT ELEVEN fu per Plant il trampolino di lancio che, pur senza troppe pretese, fece spiccare il volo alla sua carriera come solista. A questo primo lavoro, infatti, ne seguirono molti altri ai quali il cantante è riuscito sempre a dare uno speciale tocco personale grazie alla sua splendida voce.
https://stonemusic.it/42782/robert-plant-la-voce-che-strego-il-mondo-intero/?fbclid=IwAR3vFaNR_HGS7g5s6DLHLKcnN66Js9k3Ks5I8KERv4qvJmPs6ptThEeYjns


Led Zeppelin I - Usciti in questo giorno, 12 gennaio 1969
“... le vere innovazioni di quel primo album sono state le tecniche di produzione avanzate che [Jimmy] Page è stato in grado di mettere in atto e il puro peso della musicalità che aveva assemblato per eseguirli. Essere in grado di produrre tale potenza e coesione da una formazione che aveva appena un mese al momento della registrazione dell'album è stato estremamente impressionante; per catturare quell'energia registrata, tuttavia, a dir poco sorprendente; il suo talento precedentemente sconosciuto come produttore mette in ombra anche la sua destrezza come chitarrista…” - Mick Wall
Led Zeppelin I - Released on this day, January 12, 1969
“…the real innovations of that first album were in the advanced production techniques [Jimmy] Page was able to bring to bear and the sheer weight of musicianship he had assembled to execute them. Being able to produce such power and cohesiveness from a line-up that was barely a month old at the time the album was recorded was extremely impressive; to capture that energy on record, however, little short of astonishing; his previously unknown talent as a producer overshadowing even his dexterity as a guitar player…” - Mick Wall


"Un'altra testimonianza della passione e del talento dei Led Zeppelin per l'improvvisazione: non importa quanto sia lunga o breve una canzone, possono cambiarla in un batter d'occhio perché la loro profondità musicale è così sbalorditiva."
–J J Jackson, J J Jackson Remembers Led Zeppelin
“Another testament to Led Zeppelin’s passion and talent for improvising: no matter how long or short a song is, they can change it around in a heartbeat because their musical depth is so staggering.”
–J J Jackson, J J Jackson Remembers Led Zeppelin
J J Jackson was in the enviable position of having seen all 4 of Zeppelin’s January 1969 shows at the Boston Tea Party. They were originally scheduled for 3 nights, but a fourth was added due to the demand.
JJ Jackson era nella posizione invidiabile di aver visto tutti e 4 gli spettacoli degli Zeppelin del gennaio 1969 al Boston Tea Party. Inizialmente erano programmate per 3 notti, ma una quarta è stata aggiunta a causa di molteplice richiesta



56...♪♫LIVE E PERFOMANCE LED ZEPPELIN♪♫.

  https://youtu.be/QUv9uYupofI Led Zeppelin - Live in Bradford, UK (Jan. 18th, 1973) Rock and Roll, Over the Hills and Far Away, Black Dog, ...

Nessun commento:

Posta un commento

79.ROBERT PLANT LA Più GRANDE VOCE DEL ROCK E NON SOLO..(.INTERVISTE ..FOTO.. e CITAZIONI VARIE anni 70 80 90 anni 2000.

  Robert Plant si racconta dal backstage della Royal Albert Hall: “Con i Led Zeppelin un’esperienza mistica e non solo hard rock”.. https://...