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RIPERCORRIAMO IL LUNGO VOLO DEL DIRIGIBILE DI JIMMY PAGE, ROBERT PLANT & C. LUNGO LE ROTTE DI UN SOUND TANTO APPARENTEMENTE DERIVATIVO QUANTO DETERMINANTE PER LA SUCCESSIVA EVOLUZIONE DEL ROCK “DURO”. LIVE INCENDIARI, DUECENTO MILIONI DI DISCHI VENDUTI PER I LED ZEPPELIN. LA STORIA DEL ROCK PASSA DA QUI.
I Led Zeppelin probabilmente passeranno alla storia per un singolare primato, difficilmente eguagliabile: contribuire in modo massiccio all’evoluzione della musica rock non inventandosi quasi nulla, ma, anzi, attingendo a piene mani dal repertorio blues e rock-blues degli anni 50 e 60 prima, e dal folk e dalla musica orientale poi. Eppure, il loro è un soundcompletamente fresco e quasi “rivoluzionario”, che lascerà segni indelebili nel futuro del rock’n’roll. Ed è proprio questa la grandezza degli Zeppelin, che sono stati capaci di giungere laddove altri gruppi britannici prima di loro avevano solo tentato di arrivare (come gli Yardbirds – in cui militò Page stesso – i Cream, il Jeff Beck Group – con cui collaborò John Paul Jones – i Kinks).
I Led Zeppelin hanno saputo creare un suono unico, fondamentale, semplicemente vestendo con panni nuovi una musica che ormai cominciava a diventare vecchia. Una rivoluzione formale, basata in gran parte sul sound, talmente massiccia, però, da travolgere anche la sostanza, tanto da dare il la a buona parte dell’hard-rock sviluppatosi negli anni a venire, fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali è ancora ben visibile lo spettro del dirigibile su molte band.
Ma non c’è solo l’immortalità delle canzoni dietro il mito dei Led Zeppelin. Page e soci, infatti, possono vantare una serie di piccole rivoluzioni che hanno cambiato la storia della musica. Furono i primi a raggiungere un successo di massa senza dipendere dalla programmazione radiofonica. Fino ad allora, radio e televisione erano state dominate dalle hit parade, e quindi dal 45 giri. I Led Zeppelin sfondarono senza mai entrare in quelle classifiche. Nemmeno il loro più grande hit, “Stairway To Heaven”, divenne mai un singolo. E anche la laconicità con cui intitolarono i primi album (alcuni privi persino del loro nome in copertina) segnò una rottura con la tradizione, che voleva i titoli dei dischi funzionali al marketing della band.
Più ancora degli hit, ad attrarre moltitudini di fan furono le loro esibizioni dal vivo. Esibizioni che, sull’onda emotiva di Woodstock, riportavano il rock alla sua dimensione più selvaggia e genuina. I concerti dei Led Zeppelin erano pervasi da un’energia feroce, da una fantasia allucinata, da un furore quasi mistico. Erano baccanali assordanti e melodie folk, deliqui blues e sciabolate elettriche: un’orgia sonora dominata dai virtuosismi iper-veloci di Jimmy Page e dal canto stridulo e possente di Robert Plant. Il film “The Song Remains The Same” ne resterà la testimonianza più celebre.
Early Days
Tutto nasce da un’idea del chitarrista Jimmy Page. Dopo una lunga gavetta come session-man di artisti del calibro di Who, Joe Cocker e Nico, Page approda agli Yardbirds, storica formazione inglese che in precedenza aveva ospitato nomi come Eric Clapton e Jeff Beck. Sfornato l’ultimo singolo, nei primi mesi del 1968, il gruppo si scioglie. Per obblighi contrattuali (una serie di concerti), Page rifonda il gruppo, sotto il nome di New Yardbirds. Il primo a essere reclutato è il suo amico John Paul Jones (al secolo James Baldwin), bassista/tastierista e anch’esso ricercato session-man. Sfumato il tentativo di reclutare il cantante/chitarrista Teddy Reid e il batterista dei Procol Harum B.J. Wilson, Page, dopo aver assistito a un concerto degli sconosciuti Hobbstweedle, ingaggia il biondo cantante del gruppo, Robert Plant, dalla potentissima voce di stampo rock-blues. Dirà di lui Page: “Il solo ascoltarlo mi faceva sentire nervoso. A distanza di anni, accade ancora: il suo canto è una sorta di gemito primordiale”. Su suggerimento di Plant, viene infine contattato il batterista John “Bonzo” Bonam, dal drumming personale e potente, reso ancora più rumoroso dall’uso di foderare i rullanti e i tom di carta stagnola. Vero e proprio quinto membro del gruppo sarà il fedelissimo manager Peter Grant.
I primi provini sono entusiasmanti: “Ci ritrovammo a suonare in una stanza e dopo poco ci rendemmo conto di cosa stava succedendo. Iniziammo a ridere, per la gioia o per la consapevolezza di quel che potevamo fare noi quattro insieme”, racconterà anni dopo Jimmy Page.
Il primo materiale suonato è composto da cavalli di battaglia degli Yardbirds (tra i quali “Train Kept-a-Rollin'”, lo storico, primo pezzo messo a punto), inediti brani scritti da Page e classici blues e rhythm and blues.
Onorato il contratto, il gruppo cambia nome in Led Zeppelin (storpiatura di Lead Zeppelin, “il dirigibile di piombo”). Il nome viene suggerito da Keith Moon e John Entwisle degli Who.
I primi successi arrivano dall’America. E’ qui che il gruppo debutta il 26 dicembre del 1968, a Denver, Colorado, come supporter di due band sulla cresta dell’onda, come Vanilla Fudge e Iron Butterfly; ma gli Zeppelin “offuscano” i loro show grazie a una esibizione memorabile: mai un gruppo aveva suonato il blues con tanta grinta. I loro adrenalinici concerti sono un baccanale di urla e suoni assordanti a un ritmo psicotico. Saranno proprio queste esibizioni a decretarne in maggior parte il successo.
Poco prima della partenza per il tour americano, il gruppo aveva trovato il tempo per registrare il suo primo album, Led Zeppelin. L’esordio della band inglese è sostanzialmente un confronto con la storia del blues: contiene infatti dei brani di Willie Dixon, autore che verrà “saccheggiato” anche in seguito. Per rendersi conto del potenziale del gruppo basta confrontare brani come “You Shock Me” e “I Can’t Quit You Baby” con versioni eseguite da altri artisti: quelle degli Zeppelin schiacciano in ogni senso le altre, grazie al loro incedere pesante, ma allo stesso tempo pieno di riff e spunti d’improvvisazione. Brani inediti come “Good Times Bad Times” e “Communication Breakdown” presentano riff epici che resteranno nella storia, sorretti dalle detonazioni di Bonham; su tutto svetta però la rauca e sensuale voce di Plant.
Da ricordare sono anche la straziante “Babe I’m Gonna Leave You”, traditional (rivendicato tuttavia con successo dalla cantautrice Anne Bredon negli anni 80) che alterna arpeggi acustici a potenti schitarrate, culminando nel memorabile crescendo finale, e la celeberrima “Dazed And Confused”, uno dei brani simbolo del gruppo. Durante i sei minuti del brano, la fisicità del blues si sposa alla dimensione onirica della psichedelia. E Page sperimenta con la sua Gibson Les Paul le mille sfaccettature sonore che offre il riverbero: il brano diverrà famoso soprattutto per l’esecuzione con l’arco del violino nella psichedelica parte centrale. In realtà, si tratta della rielaborazione del tema di un oscuro folksinger di nome Jake Holmes, scoperto per caso dallo stesso Page in un locale di New York.
Completano l’album la ballata “You’re Time Has Gonna Come”, lo strumentale per chitarra classica e tabla “Black Mountain Side” e la lunga “How Many More Times”, cavalcata dal passo più veloce che, nei primi concerti, avrà la funzione di medley e sarà sostituita in seguito da “Whole Lotta Love”.
I testi, infine, sono il lato più trascurabile del disco: scritti ancora da Page, sono colmi di frasi a doppio senso, che a volte scadono nella misoginia (come non ricordare “Molta gente parla, ma pochi di loro sanno che la donna è un essere inferiore”, da “Dazed And Confused”).
Nonostante l’album non abbia nemmeno un singolo a rappresentarlo, Led Zeppelin scala le classifiche americane, e, quando il gruppo, al termine del tour, torna in patria, è ormai diventato una celebrità.E’ il 1969, e nasce l’hard rock (o hard-blues che dir si voglia, anche se, a onor del vero, una menzione ai Blue Cheer, che esordirono nel 1968, va fatta), proprio mentre, non molto lontano, esce “Black Sabbath”, che spiana la strada all’heavy-metal.
Il 1969 degli Zeppelin scorre quasi totalmente in tour, con quasi 150 show. Nelle brevissime pause, il gruppo trova il tempo di registrare il suo secondo lavoro, chiamato semplicemente II.
Il risultato è un sound meno psichedelico e più “duro” rispetto all’esordio, con un piglio quasi da live in studio.
Ad aprire il disco, una brevissima risata e un semplice riff di tre sole note. Saranno proprio quelle tre note a far entrare i Led Zeppelin nella leggenda. Il brano è “Whole Lotta Love”, destinata a diventare uno degli inni per antonomasia del rock. Sorretto quasi totalmente da quel riff, evolve nella parte centrale in un baccanale rumoristico, tra percussioni tempestose, deflagranti distorsioni di chitarra e le urla viscerali e istintive di Plant. La differenza maggiore tra quest’album e il precedente è la sua freschezza compositiva: si sente che è stato composto “on the road”, e le molte parti strumentali lasciate all’improvvisazione lo dimostrano.
Non mancano le palesi scopiazzature: la opener è ripresa da “You Need Love” di Willie Dixon (1962), e il terzo brano “The Lemon Song”, blues lento e pesante, ma dalle improvvise impennate hard, da “Killing Floor” di Chester Burnett alias Howlin’ Wolf. Il testo presenta ancora tendenze misogine, citando una celebre metafora sessuale di Robert Johnson: “Strizza il mio limone/ fino a quando non mi scende il succo lungo le mie gambe/ Se non strizzi il mio limone/ ti caccerò a calci dal letto”. A questo testo si oppone quello di “Thank You”, ballata con organo in evidenza, in cui Plant, nel primo testo scritto per il gruppo, omaggia la moglie. Il primo lato è completato dalla delicatezza acustica di “What Is And What Should Never Be”, in cui emergono anche tendenze jazzistiche.
Il lato B si apre con un altro capolavoro, “Heartbreaker”, bignami per ogni successivo chitarrista, grazie all’assolo centrale privo di accompagnamento, che sperimenta uno dei primi tapping della storia. Sorvolando sulla piacevole e aggressiva “Living Loving Maid (She’s Just a Woman)”, le ultime tre perle dell’album sono le arrembanti “Ramble On” e “Bring It On Home”: semi-folk la prima, in bilico tra languori acustici e scatti hard-rock, e blueseggiante(con tanto di armonica a bocca suonata da Plant) la seconda, e, tra queste due, lo strumentale “Moby Dick”, contenente uno degli assoli di batteria più celebri della storia, al pari di “The Mule” dei Deep Purple e “Rat Salad” dei Black Sabbath.
Il successo, naturalmente, sarà grandioso. II scalzerà dalla vetta delle chart “Abbey Road” dei Beatles: resterà nelle classifiche di Billboard per 138 settimane e al n.1 per un mese e mezzo, vendendo, in soli sei mesi, tre milioni di copie. Unici sgradevoli “strascichi”, le controversie per plagio con le case editrici di Dixon e Burnett, che saranno risolte con faticose mediazioni dai legali della band. Ma anche questa prassi spregiudicata in materia di “appropriazioni indebite”, peraltro piuttosto in voga all’epoca, non alienerà alla ditta Page & Plant i consensi di pubblico e critica.
I lunghissimi tour però affaticano il gruppo, che decide di prendersi una pausa: Page e Plant si ritirano in un cottage gallese presso Bron-Yr-Aur per comporre nuove canzoni. Mentre Page manifesta il suo amore per il folk, Plant è sempre più interessato al soffice rock californiano. Dalla fusione di queste influenze, nel 1970, nasce uno dei lavori più controversi della band, anche questa volta intitolato semplicemente con un numero, III. L’album alterna una prima facciata elettrica a una totalmente acustica. L’ouverture non lascia presagire alcuna svolta morbida, anzi: “Immigrant Song” è uno dei brani più violenti degli Zeps; su tutto svetta la voce di Plant, un urlo di battaglia selvaggio che sembra provenire dai barbari vichinghi citati nel testo. Per molti resterà l’ibrido “definitivo” tra il nucleo duro del soundzeppeliniano e la propensione della band verso l’immaginario magico e mitologico.
Subito dopo arriva “Friends”, primo assaggio acustico dell’album, sorretto da una sezione di violini, il cui testo, incentrato su amore e fratellanza, si sposa bene con la cultura hippiedell’epoca. “Celebration Day” torna su territori hard più consoni al gruppo, e lascia il passo a un altro capolavoro, “Since I’ve Been Loving You”, uno dei migliori brani blues della storia, in cui l’ensemble zeppeliniano sfiora vette di pathos inarrivabili per qualsiasi altro musicista; il protagonista assoluto, ancora più di Plant, che si esibisce in una delle sue migliori prestazioni, è Jimmy Page, accompagnato dalla sua fedele sei corde, sporca e imprecisa quanto volete, ma anche così “umana” e “sofferente”. E’ da brani come questi che si nota la differenza tra Page e altri bluesman “in giacca e cravatta” come Clapton. Forse anche per il capolavoro che la precede, “Out Of The Tiles” risulta un brano ritmato e piacevole, ma dimenticabile.
La seconda parte dell’album ci trasporta in atmosfere completamente diverse: i toni si fanno più pacati, la batteria scompare quasi del tutto, in favore di strumenti tradizionali come il banjo e il mandolino. Le influenze maggiori sono ora Joni Mitchell e Crosby, Stills, Nash & Young. A introdurci è “Gallows Pole”, tradizionale che parte in modo lento e si trasforma in un brano dal ritmo sfrenato, che incita al ballo. In “Tangerine”, delicatissima ballata acustica, sembra quasi di vedere, come in un miraggio, la lontana California (rappresenta un’anticipazione per un’altra splendida ballata dell’album seguente). “That’s The Way”, dal testo ecologista, sarà molto eseguita nei concerti nelle immancabili sezioni acustiche, grazie alla sua atmosfera bucolica e rilassata.
Le ultime due tracce sono “Bron-Y-Aur Stomp”, altra ballata da festa di paese, dedicata da Plant al suo cane, dal testo spensierato che insegna a vivere la vita con semplicità, e la non eccezionale “Hats Off To (Roy) Harper”, solo chitarra e voce (filtrata). L’album viene accolto male sia dalla critica che dal pubblico, e sarà rivalutato solo in seguito.
E’ proprio durante il tour di supporto a III che i Led Zeppelin scenderanno in Italia per un concerto, l’unico della loro carriera nel nostro paese. Il 3 luglio 1971, al PalaVigorelli di Milano, il gruppo è ospite del Cantagiro, e dovrebbe esibirsi dopo gli artisti italiani. Secondo David Zard, impresario rock nei primi anni 70, la colpa dei disordini fu proprio dei Led Zeppelin: “Avevamo concordato che avrebbero chiuso la giornata del Cantagiro intorno a mezzanotte, dopo l’esibizione degli altri artisti. Invece, intorno alle 20, quando c’era ancora una lunga fila di gente in attesa di entrare, mi annunciarono che volevano suonare subito. Tentai di farli ragionare, inutilmente. Il concerto iniziò scatenando l’ira di chi era ancora in fila per i biglietti. Furono inevitabili, quindi, le cariche della polizia”. Indipendentemente dalla colpa, i disordini sono incredibili. Prima, la violenta contestazione a fischi e lattine verso i “canzonettari” del Cantagiro, che aprivano la serata. Poi, durante l’esibizione dei Led Zeppelin, il putiferio: Robert Plant non fa in tempo a completare il primo brano, che la musica si ferma, la polizia spara candelotti lacrimogeni, si alza il fumo. Alla terza canzone, altri lacrimogeni e una carica della polizia, con la gente che, in preda al panico, invade il palco.
Plant disgustato dirà: “Quella sera credemmo di morire. Fummo costretti ad abbattere una porta per rifugiarci nei camerini. Quando cercammo di recuperare gli strumenti, scoprimmo che era stato tutto distrutto. Non verremo mai più a suonare in Italia”. La promessa verrà mantenuta. Curioso, invece, l’episodio di Copenaghen, 21 febbraio 1970: i Led Zeppelin sono costretti a esibirsi come The Nobs per la minaccia di azione legale da parte degli eredi del conte Von Zeppelin, inventore del dirigibile simbolo del gruppo.
Forse a causa dei rapporti tesi con la stampa, il gruppo, dopo un mini-tour in incognito in piccoli club, decide di depurare la sua musica da qualsiasi elemento estraneo. Per questo il nuovo album, pubblicato nel 1971, non presenta né il nome della band né un titolo, ma solo 4 misteriosi simboli, rappresentanti ognuno un membro della band. Che sia una cosa voluta o no, il risultato è di creare, intorno al disco, un alone di mistero. Tra i vari titoli citati per indicarlo (“Untitled”, “Runes Album”, “Four Symbols”, “Zo-So”, l’unico simbolo leggibile) si userà semplicemente IV. Anche la copertina rinuncia al dirigibile e alla consueta iconografia, ritraendo un contadino curvo, con un fascio di legna sulla schiena, e, sul retro, un desolante squarcio di periferia urbana, quasi a voler ribadire ancora una volta la vocazione “bucolica” del gruppo. Soffermandoci soltanto sul lato musicale, IV rappresenta la summa di tutti i generi toccati fino ad allora dal Dirigibile. L’onore di aprire questo capolavoro tocca a Plant con il suo urlo selvaggio e sensuale. “Black Dog” è il tipico hard-blues a cui il gruppo ci ha abituato, ma la canzone, vuoi per le quattro sovraincisioni di chitarra, vuoi per il ritmo caracollante, non suscita alcun effetto deja-vu. Tira aria di rock pesante, e la sensazione è confermata da un altro classico della band, “Rock And Roll”, che, aperta da un drumming da antologia di Bonham, non è altro che – come rivela il titolo – uno sfrenato rock’n’roll dal ritmo impazzito, in cui tutti gli strumenti si amalgamano in un flusso di energia incontenibile.
L’atmosfera cambia radicalmente con “The Battle Of Evermore”, misteriosa ballata medievaleggiante che, in un tripudio di chitarre acustiche, mandolini e dulcimer, inscena un duetto tra Plant e Sandy Denny, la cantante dei Fairport Convention. I tre pezzi da novanta precedenti non sono, però, che un tappeto rosso steso per quello che è a tutt’oggi celebrato come uno dei migliori brani della storia della musica, l’immortale “Stairway To Heaven”. Aperta da un dolce arpeggio di chitarra acustica (un vero e proprio plagio di “Taurus” degli Spirit), seguito da flauti silvestri, il brano unisce l’amore per il folk celtico e il rock ad alto volume in una sequenza dall’incedere epico, in cui, con il passare dei minuti, si aggiungono a poco a poco gli altri strumenti, fino a raggiungere il culmine nella parte finale, in cui Plant urla a squarciagola, supportato dal resto della band, mai così incalzante. Il testo è pieno di ermetiche metafore (misteriose signore, pifferai incantati, mutazioni alchemiche), e porta con sé un messaggio pseudo-religioso dalla forte carica emotiva. Diventerà un inno generazionale. L’aura di leggenda che circonda “Stairway To Heaven” verrà amplificata dalla credenza che, suonandola al contrario, si possa sentire un messaggio satanico. Trattasi probabilmente di leggenda, anche se Page è sempre stato attratto dall’occulto, ed è un seguace del mago Aleister Crowley.
Le quattro tracce che seguono, pur di ottima fattura, sono destinate a rimanere all’ombra del colosso che le ha precedute. “Misty Mountain Hop” rispolvera l’anima rock del quartetto: John Paul Jones usa come accompagnamento il piano Rhodes, anche se l’esito finale risulta un po’ ripetitivo; “Four Sticks”, che trae il nome dalle quattro bacchette usate da Bonham per suonarla, poteva essere valorizzata meglio nella sua struttura, ma rimane comunque un brano validissimo. Si torna all’eccellenza, invece, con la splendida ballata “Going To California” e il possente blues “When The Levee Breaks”, cover di Memphis Minnie, in cui il gruppo attinge nuovamente al suo primo amore, il blues. L’atmosfera è ricreata in modo così efficace che sembra proprio di trovarsi nel delta del Mississippi “quando si rompono gli argini”: l’infuriare del drumming di Bonham spiana la via alle virtuose figure bottleneck di Page e alle frasi d’armonica di Plant.
Nonostante l’enigma del titolo e la rinuncia – clamorosa per l’epoca – allo stesso nome del gruppo, IV farà collassare le classifiche, vendendo oltre dieci milioni di copie solo negli Stati Uniti.
Latter Days
Al termine dell’ennesimo tour mondiale, e di una prima parte di carriera eccelsa, per il gruppo è arrivato il momento dei bilanci. L’alchimia di blues, psichedelia, rock e folk aveva trovato la sua massima esemplificazione nei primi quattro album. Riciclare la stessa formula sarebbe stato troppo facile. Occorreva perciò allargare i proprio orizzonti, e cercare vie alternative non ancora esplorate. Mettersi in discussione. Nel 1972, sfruttando questo momento di pausa, Page intraprende un viaggio mistico in India, seguendo le orme dei Beatles e di Mick Jagger. Registrerà con alcuni musicisti indiani i brani “Four Sticks” e “Friends”, un esperimento che troverà un seguito solo ventidue anni dopo.
I quattro diserteranno la sala d’incisione per ben due anni, e quando ritorneranno, il risultato non sarà totalmente all’altezza delle aspettative. Houses Of The Holy, pubblicato nel 1973, è un album che in parte delude i fan. Abbandonato in alcuni frangenti lo sporco blues-rock degli esordi, il gruppo decide di puntare su brani più elaborati e ricercati dal punto di vista musicale, con un maggior utilizzo di suoni elettronici. Nonostante la qualità resti elevata, l’album difetta di una canzone di spicco, del lampo di genio che ne alzi la media. Il lavoro è molto eclettico: si alternano canzoni solari e allegre come “The Song Remains The Same”, in cui l’hard-rock si sposa con le sempre care sonorità californiane, “Over The Hills And Far Away” e “Dancing Days”, spensierati brani in cui Page sperimenta soluzioni sempre nuove, “The Crunge”, un tripudio di ritmiche sincopate dirette magistralmente da Bonham; la malinconica ballata “The Rain Song”, molto articolata dal punto di vista degli arrangiamenti; il tipico hard-rock di “The Ocean” (dedicato all'”oceano” di teste che il gruppo vede dal palco a ogni concerto).
I due episodi più particolari sono il divertissement di “D’yer Mak’er”, che mischia hard-rock e reggae, e l’oscura “No Quarter”, nella quale John Paul Jones fa la parte del leone con l’hammond, la voce filtrata di Plant rende molto psichedelica l’atmosfera e l’intermezzo centrale è semi-jazzistico.
Nonostante la tiepida accoglienza di critica e pubblico, i Led Zeppelin si lanciano in un altro mastodontico tour, che culminerà nella data al Madison Square Garden di New York, immortalata in seguito nel film-documentario “The Song Remains The Same”. Il 1974 è dedicato alla promozione della nascente casa discografica del gruppo, la Swan Song. I quattro scelgono quindi di partecipare individualmente ai progetti discografici degli artisti messi sotto contratto (tra cui figurano i Bad Company, Maggie Bell e i Pretty Things).
Nonostante tutto, alla fine dell’anno il gruppo rientra in sala di registrazione, e, nel marzo del 1975, viene pubblicato il mastodontico doppio Lp Physical Graffiti. Oltre alle nuove registrazioni, sono presenti sette brani mai inseriti nei loro precedenti lavori. L’album rappresenta una specie di summa delle tappe artistiche del gruppo: c’è l’hard-rock, in brani come “Night Fly” (uscita dalle sessioni di IV) e “Custard Pie”, gentili escursioni acustiche, come in “Bron-Yr-Aur”, direttamente dal III. Altri fortunati ripescaggi sono “Houses Of The Holy”, che doveva essere la title track del precedente album, e “Down By The Seaside”, sempre da III.
Sono comunque i brani nuovi a meritare maggiori attenzioni: gli Zeps continuano ad articolare e allungare sempre più le loro tracce. Accanto ad altalenanti brani come “Ten Years Gone”, “In The Light” o la lunghissima (undici minuti, il più lungo brano mai inciso in studio dal gruppo) “In My Time Of Dying”, dove si tenta un ritorno al blues tradizionale, ma in modo goffo e manieristico (basta sentire come Page “violenta” una slide guitarultradistorta), si piazza il gioiello “Kashmir”, maestoso inno sorretto da un misterioso riff di chitarra, su cui si appoggiano un’orchestra d’archi e un mellotron orientaleggiante, su cui Plant declama un testo pieno di luoghi fantastici e antiche civiltà. Si oppongono a questi impegnativi e sfibranti episodi, altre tracce in cui il gruppo ha voglia di suonare cose più immediate: ecco spiegati brani come la simil-funky “Trampled Underfoot” (dal divertentissimo testo in cui la donna è paragonata all’automobile), “The Wanton Song”, con uno strano effetto eco di chitarra e “Sick Again”.
Completano l’album due jam fuori di testa, “Boogie With Stu” (registrata al tempo di IV, e improponibile in quell’album) e “Black Country Woman” (registrata nel 1973), e il gioiello “The Rover”, con alcune delle migliori parti di chitarra mai suonate da Page.
Physical Graffiti sarà un altro grande successo per la band, apprezzato sia da critica che dal pubblico. Sarà l’ultima volta in cui il Dirigibile volerà in alto: d’ora in avanti, infatti, la fortuna volterà le spalle al gruppo. Durante il faraonico tour di supporto, Robert Plant, nell’isola di Rodi, è vittima di un brutto incidente d’auto, che lo costringe sulla sedia a rotelle per un lungo periodo.
La voglia di non darsi per vinto ha la meglio: Page raggiunge Plant a Malibu, dove sta trascorrendo il periodo di convalescenza, per scrivere nuove canzoni, mentre John Paul Jones e John Bonham tornano dalle loro famiglie. Forse anche per questo, il disco successivo, Presence, pubblicato nel 1976, può essere considerato l’album più imperniato sulla chitarra nella discografia dei Led Zeppelin: è infatti Page a comporre tutte le canzoni, mentre Plant si dedica ai testi. Si avverte, lungo tutto il disco, la rabbia e la volontà di dimostrare di essere ancora gli stessi. Se da un lato questo porterà a un suono molto più “hard”, d’altro canto la paura di non farcela e la fretta porta il gruppo a spremere fino all’osso il poco materiale che era a disposizione prima di entrare in studio.
L’album si apre con l’ultimo vero capolavoro del gruppo, “Achille’s Last Stand”. Il brano è una “Immigrant Song” all’ennesima potenza: ognuno dei dieci minuti trasuda epicità, acuita dal testo di Plant, pieno di riferimenti alla mitologia greca.
Tutto il gruppo sfodera una prestazione eccellente: Bonham rende la sua batteria esplosiva, John Paul Jones conferisce un ritmo da cavalcata epica (si sentono già le prime avvisaglie di ciò che renderà unico un certo Steve Harris), Page sovraincide tantissime parti di chitarra per poi lanciarsi in splendidi assoli; infine, Plant, pur ancora convalescente, urla a più non posso. Il brano successivo, “For Your Life”, è un altro colosso di durezza, che mostra il grande affiatamento dei tre musicisti, mentre Plant, lasciati da parte i viaggi mistici, si rituffa in storie di ragazzine arrapate.
“Royal Orleans” è un insipido funky, mentre “Nobody’s Fault But Mine” è un’altra grintosa performance (ispirata a “It’s Nobody’s Fault But Mine” di Willie Johnson), in cui Page e Plant ripetono insieme ossessivamente il tema portante della canzone, per poi lanciarsi in due assoli, prima Plant con l’armonica, poi Page con la Les Paul, per poi tornare insieme nel finale. Altre due cadute di stile sono “Candy Stone Rock”, orribile rock’n’roll anni 50, e “Hots On For Nowhere”, allegra e divertente, ma trascurabilissima. Chiude “Tea For One”, lento blues che tenta di tornare ai fasti di “Since I’ve Been Loving You”, ma che acuisce soltanto la nostalgia per un passato ormai lontano.
Le vendite dell’album saranno scarse in patria, mentre in America Presence sarà il primo album della storia a diventare disco di platino con le sole prenotazioni. A penalizzare le vendite di Presence sarà anche la pubblicazione del live doppio The Song Remains The Same, colonna sonora dell’omonimo film. L’album, registrato al Madison Square Garden di New York nel 1973, presenta il gruppo non proprio in forma perfetta, ma comunque sempre grintoso. Si alternano momenti esaltanti (l’opener “Rock And Roll”), lunghi assoli che rendono pesante l’ascolto (il quarto d’ora di assolo di batteria di “Moby Dick” o i venti minuti di “Dazed And Confused”, ma questo discorso vale per ogni live dei Led Zeppelin) e cadute su brani importanti, come in “Stairway To Heaven”, dove Plant canta a volume dimezzato.
Sostanzialmente l’album è un modo per scongiurare l’inattività forzata causata dalla convalescenza di Plant. Il film, invece, alterna le riprese del concerto a inserti in cui ogni membro del gruppo interpreta un personaggio: ecco perciò sfilare un John Paul Jones “giustiziere mascherato” con tanto di mantello e maniero/rifugio, John Bonham e Peter Grant sono due gangster, Robert Plant un cavaliere medievale, mentre Jimmy Page scala una montagna per incontrare l’eremita di IV. Altre immagini si intrufolano nella vita privata di Bonham e Plant, svelando l’amore per le auto da corsa del primo e la vita casalinga del secondo.
Nel 1977 parte un nuovo tour americano. Nei primi quattro mesi tutto procede liscio, poi in una escalation di eventi tragici Page ha un collasso sul palco, Bonham, Grant e due roadiesono arrestati per aver picchiato due promoter dello staff dell’impresario Bill Graham. Infine, il gruppo riceve la notizia della morte del figlio di Plant, Karac, di cinque anni. La tournée viene interrotta tra polemiche e strascichi giudiziari. Come se non bastasse, di lì a poco Bonham si frattura il polso in un incidente d’auto.
Iniziano a circolare voci secondo cui la causa del declino del gruppo sia l’interesse di Page per l’occulto… Il gruppo torna in studio solo nel maggio del 1978. La scena musicale però, non è più la stessa: il progressive e l’hard rock, che fino ad allora erano stati i generi più in voga, vengono messi in crisi dall’esplosione del punk. I punk odiano i “dinosauri” come i Led Zeppelin, soprattutto a causa del loro stile di vita, fatto di evasioni fiscali, party con le groupie, hotel a 5 stelle e un successo costruito su brani lunghi e autocelebrativi, privi di un qualsiasi messaggio politico o sociale. Dirà anni dopo Robert Plant: “Quelle accuse lanciate ai Led Zeppelin durante il periodo del punk, accuse di non avere nessuna idea su quello che stavamo facendo e dicendo, accuse di superficialità e mancanza di sensibilità… beh, erano vere. Devo ammetterlo: allora facevano male, bruciavano, ma oggi devo dichiararmi colpevole!”.
Oltre a questo, il gruppo sembra sfaldarsi: i dissapori tra Page e Plant sono sempre più insostenibili, mentre Jones e Bonham dividono il loro tempo tra il gruppo e la Rockestra di Paul McCartney. Un po’ per tutti questi motivi, il nuovo album, In Through The Out Door, è un vero e proprio disastro: il gruppo cambia quasi completamente genere, perdendo la rotta. La voglia di apparire “alla moda” a tutti i costi li porta a snaturare completamente, infarcendolo di sintetizzatori, il loro tipico sound. Ma andiamo con ordine: l’inizio, al contrario di quanto possa sembrare, non è dei peggiori. “In The Evening”, introdotta da atmosferici synth, è una canzone solida e tirata, in cui elettronica e strumenti trovano un giusto equilibrio con un bell’assolo di Page. Anche il secondo brano, “South Bound Suarez” non è malaccio, uno scanzonato rock’n’roll reso movimentato dal piano di John Paul Jones.
D’ora in poi, i quattro non azzeccheranno nulla. In terza posizione troviamo “Hot Dog”, uno stupido country, seguito da “Fool In The Rain”, denso di sonorità caraibiche e reggae, con tanto di fischietti e percussioni. “Carouselambra” è un supplizio di dieci minuti, in cui il gruppo cerca una miscella tra le sempre care atmosfere orientaleggianti e il progressive à-laYes, risultando solo freddo e pomposo. Alza lievemente la media “All My Love”, una virata sul pop, ma almeno squisitamente malinconica, il cui testo è dedicato da Plant al figlioletto Karac. Chiude l’album “I’m Gonna Crawl”, incursione nel soul, in cui Plant tenta di imitare James Brown, risultando solo irritante. Da notare anche il titolo profetico dell’album, “Attraverso la porta d’uscita”: si tratterà infatti dell’ultimo lavoro dei Led Zeppelin. Poco dopo la sua pubblicazione, Page, in un’intervista, dichiarerà: “Quando ascolto ‘All My Love’ penso: non siamo noi, non siamo noi. Io e Bonzo abbiamo già cominciato a discutere sul nuovo album, che avrà una impostazione rock più decisa. Sarà sicuramente più interessante”, ma non sa che non ci sarà tempo per registrare un altro album.
L’epitaffio e l’eredità
Nel giugno del 1980 il gruppo intraprende un mini-tour in giro per l’Europa. Il risultato è così confortante da spingere i quattro a programmare un nuovo tour americano. Ma il 25 settembre, nella villa di Page presso Windsor, dove il gruppo si era rinchiuso per le prove, John Bonham viene trovato morto, dopo una lunga notte di abuso alcolico. E’ la fine: il gruppo decide di sciogliersi. Il 4 dicembre 1980, il comunicato-epitaffio della band: “La perdita del nostro amico e il rispetto per la sua famiglia ci hanno portato a decidere che non potremo continuare come prima”.
Per obblighi contrattuali, viene pubblicato postumo, a due anni dalla tragedia, Coda. E’ un album assemblato con i rimanenti brani inediti. I primi tre brani vengono direttamente dal biennio 1970-71: “We’re Gonna Groove” è una energica cover di Ben E. King, “Poor Tom” è un rilassato brano acustico molto minimale. Chiude questa prima parte la registrazione dal vivo di “I Can’t Quit You Babe”. Da Houses Of The Holy viene recuperato l’infelice boogie “Walter’s Walk”, penalizzato da una pessima registrazione. Sorprendono, invece, i tre brani scartati da In Through The Out Door: privi dell’abuso di synth, “Ozone Baby”, “Darlene” e “Wearing And Tearing” (che sarebbe potuta diventare un piccolo classico) suonano molto più zeppeliniane delle più sfortunate versioni finite nell’album del ’78. Omaggio al loro sfortunato compagno è “Bonzo’s Montreaux”, nove minuti di sperimentazioni percussive.
Dal 4 dicembre del 1980, il vuoto lasciato dal gruppo non è mai stato colmato. Sia Page che Plant hanno intrapreso in seguito carriere soliste lontane dai fasti dei Led Zeppelin (molto deludente soprattutto quella di Page). Nonostante questo, i tre superstiti si sono incontrati per suonare insieme varie volte: con la session “old rock” degli Honeydrippers (1984), al Live Aid, 1985 (Phil Collins alla batteria), in un concerto celebrativo per il quarantesimo compleanno della Atlantic, (1988, Jason Bonham, figlio di John, dietro le pelli).
Page e Plant hanno addirittura pubblicato due album insieme: nel 1994 No Quarter: Jimmy Page & Robert Plant Unledded, in cui vengono reinterpretati alcuni classici dei Led Zeppelin in chiave orientale, oltre a quattro brani scritti appositamente, e nel 1998 Walking Into Clarksdale, più tendente al rock/blues ma dall’andamento altalenante.
Ma il regalo più grande ai fan Page lo offre nel 1997 con la rimasterizzazione in due cd delle storiche Bbc Sessions dei Led Zeppelin, circolate per anni attraverso innumerevoli bootleg. Il primo disco racchiude i brani dei primi due album nelle versioni incise per due trasmissioni radiofoniche del 1969: esecuzioni dal vivo e in presa diretta, che testimoniano la dirompente verve dell’allora giovane band. Si aggiunge solo qualche sovraincisione (alcuni cori e assolo chitarristici). Tra gli inediti, la “Travelling Riverside Blues” di Robert Johnson, già inclusa nel cofanetto “Remasters”. A chiudere il primo cd, un breve live registrato al Playhouse Theatre di Londra per la trasmissione “One Night Stand” del giugno 1969. Il secondo disco, invece, fotografa lo show di due anni dopo al Paris Theatre di Londra per il programma “In Concert”, includendo anche i pezzi che vennero eseguiti ma non trasmessi in radio.
Anche oggi, a quasi trent’anni dal loro scioglimento, il dirigibile dei Led Zeppelin continua a restare in quota. L’interesse per gli hardrocker britannici non accenna a diminuire, come dimostrano le varie uscite che puntualmente vengono pubblicate: tra le tante è doveroso citare il triplo live How The West Was Won, registrato poco prima dell’uscita di IV, il doppio Dvd Led Zeppelin (cinque ore complessive), in cui viene ripercorsa la storia del gruppo attraverso alcuni dei suoi migliori concerti, ma anche la doppia antologia Early Days e Latter Days, utilissima per chi vuole accostarsi alla loro carriera. “Volevamo farci conoscere da una nuova generazione – ha spiegato Page – Ho sempre pensato che la nostra musica potesse durare a lungo, quello che non immaginavo è che io potessi vivere tanto. A 18 anni pensavo che sarei morto a 30, mi sembra incredibile aver superato anche i 50”.
E’ dura a morire, invece, la polemica sul “rock satanista”, che si abbatté sulla band fin dai tempi in cui Page acquistò la Boleskine House, la “casa maledetta” del mago Aleister Crowley vicino al lago Loch Ness, in Scozia. Alla fine del decennio 90, Page ha perfino vinto una causa contro la rivista “Ministry Magazine” che lo accusava di aver assistito inerte alla morte di Bonham, indossando una tunica “satanista” e tentando un incantesimo. Robert Plant, invece, è stato criticato per aver scritto testi da figlio dei fiori fuori tempo massimo: “Come può mai essere datato un figlio dei fiori? – replicò – L’essenza di ciò che scrivo è il desiderio di pace, di armonia. È tutto quello che ogni persona ha sempre voluto. Come può diventare un argomento fuori moda?”.
Oggi i figli dei fiori sono una razza estinta, ma i figli dei Led Zeppelin non si contano più. Gli ultimi sono stati forse quelli di Seattle, della generazione grunge dei Nirvana e dei Pearl Jam, che hanno aggiornato il loro hard-rock con un approccio punk iconoclasta e disperato, oppure i paladini dello stoner-rock, dai Kyuss in poi. Ma ai Led Zeppelin non servono eredi. Hanno già venduto 200 milioni di dischi. E sono ancora venerati da folle di vecchi e giovani appassionati. Un elisir di eterna giovinezza musicale: è questa la loro “scala per il paradiso”.
Download Starway To Haven – Video Live mp4 HD
→Led Zeppelin Stairway to Heaven Live
https://youtu.be/HQmmM_qwG4k?list=PLjH4YJfu1WfE2bciiQZ7Ci0TiIDzYE3HJ
https://musicadventure.altervista.org/wp-content/uploads/2018/02/Led-Zeppelin-Stairway-to-Heaven-Live.3gp
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